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Avere tre vite

Studiare pianoforte. Immergermi nel teatro. Meditare. Leggere tanti libri. Studiare Filosofia. Imparare a capire l’arte. Migliorare la lingua inglese e lo spagnolo. Allenarmi. Fare il DJ e produrre musica. Seguire la mia piccola partita iva di comunicazione. Curare i rapporti con le persone. Scrivere storie, progetti, frasi, articoli, contenuti per i miei clienti. Seguire le collaborazioni dando il massimo. Restare informato su tutto. Vedermi bei film. Viaggiare.
Restare indipendente da tutto e poter ogni giorno decidere cosa fare. Godermi la vita e la sua bellezza senza rimorsi di aver fatto cose che non volevo fare giusto per accontentare altri.

Se dovessi fare tutto quello che sto facendo e che voglio ci vorrebbero almeno tre vite. Ma lo faccio. Senza ossessione di vincere. Perché sono stupido, perché son testardo.

I viaggi ci fanno star bene

Qualche giorno fa era la giornata del benessere mentale, per ricordarci che la salute non è solo quella del corpo o del conto in banca o il successo a costo di calpestare tutto e tutti.
I viaggi non curano malattie, non fanno miracoli, ma offrono nuove visioni e spunti per vivere meglio, per uscire dalla provincialità e dell’invidia. E poi qualcosa ancora: la comprensione delle differenze, il rispetto e la sensibilità verso il prossimo.

Un giorno a Espinho, Portogallo

Dov’eravamo rimasti? Ieri mattina, Porto. E’ solo una tappa, la mia suggestione per i piccoli paesi non è un segreto.
Pranzo quasi sotto il ponte Luis I, in un
banale bar turistico. Insalata di pollo, una birra (l’immancabile superBock) e un caffè. Guardo google, un tempo la guida cartacea. C’è che mi ispira Espinho. Che ne dici, Tixi?
Cammino fino alla Stazione Sao Bento, conosco oramai le strade di Porto. E’ la classica città dove mi oriento, ma questa facilità la ritrovo oramai quasi ovunque. Come se avessi un sesto senso del viaggiatore che mi permette di sapere sempre dove trovare ciò che che cerco, anche quando mi perdo.
Il treno, destinazione Aveiro, parte ogni ora. Scelgo quello delle 15:50. E’ affollato di studenti e fa il giro passando per la Stazione di Generale Torres e Campanha.
SULL’OCEANO, ESPINHO!
Espinho mi aspetta a metà pomeriggio, cento metro dalla stazione sotterranea c’è subito il lungomare. Non pensavo fosse tutto così vicino. Ora sono di nuovo sull’Atlantico, una gioia che ritrovo sempre. Non è questione di essere solo vicino al mare ma di sentirsi al mare.
Un’immensa distesa di sabbia lambisce case basse fatte di abitazioni semplici, ristoranti e alberghetti. Poca gente in spiaggia, dove ci sono due barche di legno colorate che non capisco se siano vere o messe là come allestimenti. Non mi stupisce più nulla dei viaggi.
Mi siedo sul muretto, ascoltando l’aria profumata dell’oceano e il vento inconfondibile. Camminano tanti anziani e surfisti. Si fermano e chiacchierano su questo infinito muro che divide la spiaggia dalla strada. L’albergo è a meno di un chilometro. Anzi non è un albergo, ma una piccola guest house con 4 stanze. La mia è moderna e spaziosa, un bagno in cui si potrebbe ricavare un’altra stanza, e si chiama concha (conchiglia). Dà sull’oceano e sui tetti di Espinho con un piccolo terrazzo che solletica l’idea di festicciole con musica e cene romantiche. C’è una scritta che parla di sogni eterni e mare.
Il gestore non concede sorrisi ma spiega in inglese essenziale tutto: le persiane automatiche e occhio che devi bloccare il meccanismo, dove sono le coperte, wifi e eventuale clima nel caso avessi freddo. In bassa stagione puoi trovare ottime sistemazioni a prezzi davvero contenuti.
Riordino il bagaglio, mi godo per un po’ la terrazza che il tramonto è ancora lontano. Provo a curiosare nelle vite altrui, nei panni stesi e nelle finestre socchiuse.
Cerco il primo bar di zona, si chiama Dolce ed è gestito da due ragazzi gentili appassionati di calcio. Sono in compagnia di una coppia di viaggiatori e di due anziane donne che discutono con un libro davanti. Non capisco nulla e mi spiace non afferrare. Un’altra birra SuperBock e patatine fritte, una delle tre scelte di accompagnamento insieme alle olive e alle sardine.
Leggo e scrivo aspettando il momento d’oro, quando il sole planerà sul mare. La classica foto col tramonto diventa un ricordo di questo attimo di vita e viaggio. Un giorno la riaprirò.
Alle sette c’è buio e il freddo entra nelle membra con inattesa cattiveria. Le luci si appannano da una leggera foschia. La mia felpa Pull and bear da metà stagione è debole.
IL RISTORANTE FINTO ITALIANO
Mi vien voglia di andare a cena presto, quasi fosse una ricerca di calore umano. Tra le decine di ristoranti in zona, tutti ben recensiti ma poco affollati, mi butto su quello italiano. Ovunque tu vada c’è sempre un ristorante italiano!
Lo stomaco fa capricci e per quanto sia buona la cucina portoghese non sono un grande amante del baccalà e del mare. Mea culpa.
All’arrivo capisco che di italiano ci sono solo i prodotti civetta in giro nel locale, il nome, i tricolori tattici e i menù. Già all’ingresso quando dico che “sono da solo” in italiano e poi in inglese la cameriera non capisce. Poi faccio “uno” col dito, e sì annuisce. Mai penserei che tutti i ristoranti che si chiamano “italiani” all’estero lo siano per davvero. Almeno qui però hanno evitato la playlist di Eros Ramazzotti, Ricchi e Poveri e Mietta, ma anche la presenza di certi italiani ristoratori all’estero che si sentono il ras del quartiere con imbarazzanti abbigliamenti e storie.
Apprezzo tanto il coraggio con cui tanti provano a fare cucina italiana. Perchè mentre gli italiani sono bravi ma oramai pigri e presuntuosi, magari altrove non hanno le loro qualità ma si sforzano.
Esce dal forno a legna una pizza dignitosa, piuttosto dolce per quei pomodorini tagliati. E la pizza dolce è un 5 per me. Mi frega un antipasto, che mi riempie all’inverosimile. Maledico me stesso per quell’errore tattico della doppia portata e provo a chiudere con fatica la margherita per non sentirmi in colpa e non far apparire sgradito il loro servizio. Anche quando un altro cameriere, che pensavo fosse italiano, mi chiede se sia tutto ok lo rassicuro con un sorriso diplomatico anche se vorrei dire che è colpa mia e non ci sta nulla. Sì, lo so, son cose assurde ma son fatto così.
La cameriera è gentile, quasi al limite del servilismo. Mi mette a disagio. Ogni volta che porta un piatto resta davanti nell’attesa di un altro comando. Comprendo la situazione, la rassicuro con un sorriso e un ringraziamento sincero. Non voglio per nulla apparire il cliente stronzo e padrone. Sorridiamo quando chiedo il pane, e dico, “pan” senza sapere che in portoghese si dice “pao”. Lei mi guarda stranita finché non azzecco la parola giusta. Ma i miei dubbi su portoghese sono tanti: escludendo obrigado che pronuncio a profusione, mi manca ancora la battuta semplice, il saluto opportuno, la base. Il comunicare poco mi fa frustrazione, mi toglie la curiosità di conoscere persone e interagire.
Mi concedo un’ultima passeggiata prima di ritirarmi nella Guest house. La sera è fresca, ma c’è ancora gente in giro. Osservo i ristoranti semivuoti, gruppi di pescatori dilettanti rompere il buio dell’oceano e macchine che passano troppo lente per essere vero. Tutto sembra in un immenso e bello slow motion in cui devi stare attento a non rompere l’armonia.
Oggi. Svegliarsi in un’altra città, ovunque, lontano è sempre un’emozione nuova. Se c’è un mare e meglio ancora un oceano, è la rassicurazione che stai ancora vivendo, che qualsiasi cosa accada lui ti proteggerà.
COLAZIONE E RIPARTENZA
Faccio colazione da Zagalo, locale vicino a dove alloggio. Nel tavolo comune per gli ospiti sono disposte prelibatezze dolci e salate: torte, pasticcini, mignon. In un altro yogurt, latte, caffè, spremute. Cerco di essere razionale puntando alle proteine e alla frutta. Prosciutto sfilacciato, uova e bacon. Pane e marmellata. Un mix di ananas, kiwi e arancia. Poi mixo il caffè con il latte e ci aggiungo i corn fakes. Mi chiedo se ci siano delle logiche per cui si inizi col dolce o col salato. Vado col secondo.
Mi preparo per il check out ma prima faccio una passeggiata sulla spiaggia. Non mi son accorto che la Praia do Barrio Piscadorio è davvero lunga e per arrivare alla riva ci vuole tempo! Quando arrivo a pochi passi dall’acqua, mentre le onde del mare si fanno più forti, penso a quei viaggiatori che son partiti senza mai sapere cosa ci fosse qui davanti. Penso al coraggio e alla voglia di andare oltre il conosciuto. A come la passione del mare possa portare anche all’estremo gesto. Ci son gabbiani che si godono il primo sole e conchiglie. Il profumo è inebriante. Potrei fermarmi qui e non muovermi mai. Purtroppo devo andare.
Riprendo lo zaino e lascio l’alloggio. Non c’è nessuno e lascio la chiave nella piccola hall, vicino al computer.
Sembra che in questa cittadina il momento clou sia il ritorno delle barche dei pescatori e un mercatino spontaneo che si organizza proprio qui davanti. La gente si affolla di fronte a un bar, la Casa Pescador a Anabela. Ci son anziani e pescatori e qualche viaggiatore curioso. Chi guarda l’arrivo delle barche, chi contratta per le sardine. Chiacchiere sparse e urla degli uomini di mare mentre trasportano le loro catture per mezzo di trattori. Mi siedo al bar vicino – da Fatinha – e prendo un tavolo tattico per osservare tutto. Una donna si ferma con la busta della spesa e mostra un surgelato in scatola a due amiche. Forse si lamenta da prezzo. Un altro uomo, credo un pescatore, ha una maglia biancoverde del Porto ed entra ululando qualcosa. Chiacchierano tutti ad alta voce. Il mare ricomincia a ringhiare ma da qui vedo solo gli spruzzi. Le barche di legno colorate posano sulla spiaggia, in attesa di un altro giorno. I pescatori riordinano le reti e le lasciano al sole. Potranno riabbracciare le mogli e i figli riposarsi e godersi il tempo. La giornata per loro è appena finita. La mia, chissà. Non ho programmi. Mi basta l’oceano.

Social per tutti

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Ieri son stato chiamato da diversi candidati alle amministrative di queste settimane per parlare di social e del loro utilizzo.
Non una lezione ma una chiacchierata su come gestirli, specie in campagna elettorale.

Sono convinto che i social, se utilizzati con intelligenza, possono essere uno strumento molto potente. E non serve una scienza per farlo o conoscere tutti i meccanismi interni e le logiche di algoritmo.

I social vanno presi con attenzione, ma senza farne una malattia e un’ansia: dovrebbero aiutare a costruire rapporti e far circolare buone idee senza sostituirsi alla realtà. Gia questa premessa può essere un interessante punto di partenza.
Nessuna grande strategia, nessun “esperto in cinque minuti”, nessuna parolona in inglese tanto cara a tanti corsi online e markettari vari.

Tra i consigli che ho dato – e continuo a dare a me stesso – ci sono: trasmettete positività, raccontate storie e utilizzate lo spazio per promuovere progetti e buone pratiche che possono aiutare gli altri a risolvere problemi e connettersi. Evitare di cadere nella trappola delle infinite discussioni online, lasciar parlare nel vuoto i provocatori (tanti…) e dettare delle regole (una vera policy) nei propri profili.

Il mio compito, complicato, vuol essere questo: lavorare insieme per una buona comunicazione. Senza bacchette magiche, Con cura, attenzione, semplicità e autenticità. Un lavoro artigianale con strumenti digitali. Rimettendo al centro le persone. Facendo anche apparire le nostre rughe ed evitando narrazioni preconfezionate, anche queste molto diffuse (specie tra negozi e aziende), dove i post, lo scritto e i contenuti visivi sembrano usciti da fabbriche di plastica. Quei post talmente perfetti che hai paura di leggerli.
No, anche i social riflettano la vita vissuta. Avvicinino le persone. Aiutino nella difficile impresa di permettere di migliorare i nostri mondi contemporanei.

(Immagine di John Holcroft)

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Il gruppo di amici e la macchina per Cuglieri

Sei ragazzi che si conoscono da tanto. Vent’anni, vita normale tra studio, piazzetta e una birra. Una bella storia rimasta qualche settimana nel cassetto. Che oggi riapro, condividendola con voi.
Alessandro Soccol fa Informatica all’Università di Pisa, Alessandro Concas Psicologia all’università di Cagliari, Luca Serra lavora, Alberto Padroni studia Scienze Politiche all’Istituto di studi politici di Parigi, Lorenzo Caria Chimica all’Università di Cagliari, Luca Cadelano Chimica e Tecnologie farmaceutiche.
Assistono al dramma dei roghi nell’isola ma decidono di non stare con le mani in mano. Vedono articoli e foto e le richieste di aiuto di beni di prima necessità .

È il 26 luglio, di prima mattina, di fronte agli ennesimi video postati decidono di muoversi. Controllano la veridicità delle richieste di beni di prima necessità e si organizzano. Destinazione #Cuglieri, uno dei paesi più colpiti, in provincia di Oristano: “Siamo un gruppo attivo, attento a certe tematiche e molto unito, per cui, complice il tempo libero che porta l’estate, è nata l’idea: perché non dare una mano?” mi racconta Alessandro Soccol.
Sapevano che le zone colpite avessero bisogno di aiuto, ma non come fare. Sfidano l’idea di essere pronti a tutto. Si organizzano e partono da Cagliari nel pomeriggio: “Alla nostra scarsa organizzazione ha supplito il supporto di tanti nostri amici con cui abbiamo riempito due macchine che sono diventate 3 perchè troppo piene di cibo, cibo per animali, acqua e vestiti”.

Qualche ora d’auto e iniziano a vedere, all’ingresso del paese, i canadair in lontananza con le ultime fiamme ancora da spegnere. Un paesaggio lunare: cenere, una scala di grigi. L’aria irrespirabile. Alcune aziende sono bruciate. Si domandano: e se fossero le nostre?
Vanno al centro di raccolta dei vigili. Lì una caserma intera, compresi sindaco, polizia, reparti speciali e crocerossine è in fermento, per ammassare viveri, pianificare, sistemare i mezzi. Discutono col sindaco che è determinato a uscire da quell’inferno.
Una goccia in un oceano, forse, ma importante. E quel grazie ricevuto è la ricompensa.

Nomadismo digitale all’epoca del Covid

Il “gioco” – si fa per dire – cominciò in Spagna tanti anni fa, almeno una decina. Avevo apprna finito il Cammino di Santiago. Portarsi il computer, avere una connessione e unire lavoro a viaggio. Scenari che cambiano, natura, mare, campagna.
Ricordo ancora quando un mio committente mi chiamò e gli risposi che fossi a Beirut. Per fortuna era un viaggiatore e come me capiva che le distanze non toglievano la qualità e la serietà. Anzi, il viaggio arricchiva e rendeva la mente più dinamica. E per chi lavora nel digital è una soluzione pratica.
Le derisioni non mancarono. I clienti guardarono storto, dicevano che non fosse rispettoso viaggiare e seguirli a distanza. Qualcuno continuò a dire che viaggiare e stare in giro fosse sinonimo di poca serietà e affidabilità. Quanta fatica dover far passare anche questo messaggio e sfondare l’ennesimo muro di mentalità chiusa e provinciale, capace anche di farti perdere occasioni per pura invidia.
Io sorrido e vado sempre avanti, consapevole che il futuro sia già adesso.
2021, il nomadismo digitale continua.

La vita è abitare rischiosamente il mondo

La vita è abitare rischiosamente il mondo, mettendo in crisi le sue ambizioni al controllo e al potere, facendo domande e cercando risposte, sperimentando e diventando nomadi del pensiero, ma sempre fedeli alla propria Comunità, alla ricerca delle risonanze con chi può cambiare la vita rinchiusa in una monade senza finestre.
La vita non è, come scrive Baricco, ciò che sta succedendo, con umani capaci di vivere che non lo fanno più. 
Non viaggiano, restano a casa, lavorano senza incontrarsi, non si toccano, non si occupano dei loro corpi, conservano pochissime amicizie e al massimo un amore; da tempo riservano al solo ambiente famigliare, notoriamente tossico. Pretendono anche che gli altri facciano lo stesso. (…) non escono a fare sport, feste e gite; non escono dopo il tramonto, quando è festa si chiudono in casa. Stanno dimenticando, a furia di non farli, gesti che ritenevano importanti, o quanto meno graziosi: applaudire, urlare, andare lontano, insegnare girando tra i banchi, limonare con qualcuno per la prima volta, andare dai nonni, suonare uno strumento per un pubblico, discutere con gente di cui puoi sentire l’odore, ballare, fare una valigia, andare a sposarsi accompagnati da tutti quelli che ti vogliono bene, giocare a bowling, scambiarsi il segno della pace a Messa, uscire da casa senza sapere ancora dove andare, camminare in montagna, respirare nel buio di un cinema, tenere la mano a qualcuno che muore.
Sistematicamente, e con grande determinazione, predicano la solitudine, la scelgono e la impongono, come valore supremo: lo fanno anche con coloro a cui non era destinata affatto, come i ragazzi, i malati e le persone felici.
Questa “idea di vita”, incapace di coglierne il senso profondo, che qualcuno conduce e vorrebbe pure imporla agli altri attraverso una “paura di morire” e un rispetto delle “regole sanitarie” imbevute di razionalità meccanica, va combattuta.
Il cammino dell’uomo deve essere andare alla ricerca dei valori più preziosi della vita, comprendendo che bisogna prendersi cura di sé e degli altri.

Lunedì da zona bianca in Sardegna

Lunedì, faccio la spesa, incontro un amico e poi vado in studio di registrazione per un progetto musicale.
Tutto programmato per poi rientrare a casa, farmi un’insalata semplice, senza nessuno slancio. È lunedì e il corpo lo sa.
Le 9 di sera sul cruscotto, l’aria frizzante, le luci del lungomare.
Perché tornare a casa? Cambio strada, via. Alla radio gli Spandau Ballet, through the barricades. Mi rivedo nell’88, pischellino di 13 anni con i vinili nello stereo Aiwa del salotto, ascoltavo la musica di mio fratello, schiacciavo i tasti della Olivetti di papà e sognavo cose che avrei fatto da grande. Tutto scritto dal destino: scrittura e musica. Scrittura e musica. Non sono nato oggi, radici profonde.
Prima pizzeria, insegne luminose, troppo tardi per chiamare qualcuno a unirsi. «Sono solo», scambio sorrisi col cameriere, poi ai tavoli. Si accomoda anche il mio zaino che mi farà compagnìa. Vedo l’emozione di chi come me vive questo strano giorno e una cena un po’ speciale. Un compleanno rumoroso, una coppia di amici, un’altra di amiche.
Non è capodanno, non è natale, è un fottutissimo lunedì che potrebbe essere inutile se non fosse il primo di zona bianca. Un lunedì di speranza.
Sono felice per me, per chi lavora, per chi vive, per come stanno andando le cose.
Una pizza e un bicchiere di vino. Li chiamo attimi di inutile felicità. Ma grazie a questi sopravvivo e invecchio come voglio.

BUONA VITA A TUTTI

Bitti, ferite e futuro

Non so se sia una caso con la bella notizia della zona bianca, ma oggi sono a Bitti per una bella iniziativa della Federazione calcio, in una giornata di sole.
Essere qui significa vedere, metro dopo metro, il contrasto tra una natura che ti affascina e ti rende un puntino, e i segni delle ferite, il terreno violentato dalla furia di acque e detriti in ogni suo angolo.
Ferite che si riemargineranno, ne son certo, e che non scalfiscono l’orgoglio dei bittesi, che tengono duro, e anche oggi lavorano alla sistemazione.

Poi c’è la speranza.
C’è il signor Giorgio che, incuriosito delle foto che sto facendo, mi mostra la sua casa in via Cavallotti e indica il livello dei detriti: «Pensa che fino a lì era tutto fango, non è facile ma ci proviamo». Mi regala un sorriso genuino.
I piani di sotto sono sistemati, le serrande sono nuove, alcune cantine sono riutilizzabili, ma la strada e alcuni caseggiati nei dintorni sono incerottati e polverosi.

Nella bella piazza c’è il Comune, con una facciata bianca pulita, e vicino Su Zilleri de Pigozzi con il tendaggio verde.
Targhe vecchie e nuove, San Pellegrino, Ichnusa, gelati Motta e ancora attenzione, pericolo, con ritmo e velocità Ninnè con i suoi occhiali a goccia e la capigliatura folta sforna caffè e birre e poi avvisa tutti “Saludi pitzinnos e a chent’annos” mentre sorseggia un bicchier d’acqua pronto a mo’ di fil’e ferru.
La voglia di ripartire è negli sguardi orgogliosi di due appassionati di calcio che ricordano i fasti della Bittese, nei panni stesi al sole, nella parole del sindaco: « Non basta ricostruire case, bisogna anche rimettere in movimenti culturale, sport e socialità».
Il paese è un grande cantiere, dove tutto viene rimesso a posto. Come in Piazza Giovanni dove una tenera madonnina con fiori freschi controlla un incrocio di varie direzioni e una cassetta delle lettere solitarie. Chissà quante parole e sentimenti saranno passati per quel pertugio.
L’alluvione ha tagliato il paese tanto che per andare da una parte all’altra bisogna trovare soluzioni che i navigatori non suggeriscono. Strette viuzze che celano segreti e piccole storie. Una chiesetta aperta con i banchi vuoti e il sole che entra, un cartello stop tondo, una donna che si allontana in una salita polverosa, un archetto dove passare con fatica con l’auto e ancora i comignoli e case abbandonate chiuse da arrugginiti cancelli.

Com’è che diceva Cremonini? “qua in Sardegna splende sempre il sole anche quando è il caso di far piovere sul cuore”. E il sole anche oggi splende su Bitti. Su questo bel campo dove dei bambini giocano. La speranza ha forma di pallone.

Un medico per Seui

Sembrerebbe il titolo di una fiction della Rai di prossima uscita, ma purtroppo c’è poco storytelling e molta realtà. Dura. A Seui, milletrecento abitanti, manca il medico di base, dalla fine dell’anno.

Perché parlo di Seui? Perché ho legame speciale con quella comunità dove son stato spesso da Dj, e oggi mi sento di dover condividere, nel mio piccolo sito, il loro appello, nella speranza che qualcuno dei miei contatti lo legga e se ne faccia ulteriormente portavoce.

Un medico, una figura centrale della vita quotidiana di un paese, specie se il più vicino presidio sanitario è a un’ora di auto. E in periodo di pandemia non è proprio il massimo.


Si fa tanto parlare dello spopolamento dei territori – discussioni, convegni, articoli – e di salvifiche tecnologie, turismo e startup. Tutto bello, ci mancherebbe, ma ecco, cominciamo a salvare i servizi fondamentali. I diritti dei cittadini, anche di quelli che vivono lontani dai grandi centri abitati.

I seuesi – tra cui il caro amico Stefano Gaviano, uno dei giovani più attivi nel territorio – non si son dati per vinti e, dopo tanti appelli, hanno scritto a Gino Strada di Emergency.

Seui 21-02-2021
Gentilissimo dottor Gino Strada,
ci appelliamo ad Emergency e alla vostra notoria empatia e disponibilità verso tutte le persone in difficoltà.
Siamo una piccola comunità del centro Sardegna, Seui, sorge tra i monti della Barbagia e conta tutt’oggi circa 1300 anime.
Dal 31 dicembre 2020, in piena crisi pandemica, siamo privi del medico di base, tale fatto scaturisce dalla totale incapacità delle istituzioni regionali di provvedere alla dovuta sostituzione della suddetta figura, disattendendo totalmente il diritto alla salute ed all’assistenza in genere, garantito dall’articolo 3 della nostra Costituzione.
Attualmente ci dobbiamo appellare alla disponibilità, al buon senso e alla buona volontà di un medico, e delle guardie mediche, alcune ore alla settimana, che garantisce un minimo servizio, più burocratico che sanitario ( compilazione delle ricette essenziali e prescrizione dei farmaci ).
E’ evidente che questa situazione crei disagio ed un concreto rischio alla vita delle persone. In merito a ciò ci sembra doveroso segnalare, in questi due mesi, un aumento esponenziale dei decessi, dovuti sicuramente ad un disservizio che sta colpendo tutte le fasce anagrafiche del nostro paese.
Il disagio è aumentato dal fatto che la nostra comunità disti dal più vicino presidio sanitario essenziale, in condizioni ottimali, oltre un’ora di auto.
Assistiamo inermi al fatto che la sanità pubblica da servizio essenziale stia diventando appannaggio delle elitè economiche, sociali ed anche geografiche, svilendo la dignità degli ultimi residenti delle aree interne della Sardegna, ormai ridotti al rango di “riserva indiana”.
Tutto ciò considerato, Emergency rimane la nostra ultima speranza e dunque chiediamo la vostra disponibilità in modo che “NESSUNO RIMANGA ESCLUSO”!