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Un medico per Seui

Sembrerebbe il titolo di una fiction della Rai di prossima uscita, ma purtroppo c’è poco storytelling e molta realtà. Dura. A Seui, milletrecento abitanti, manca il medico di base, dalla fine dell’anno.

Perché parlo di Seui? Perché ho legame speciale con quella comunità dove son stato spesso da Dj, e oggi mi sento di dover condividere, nel mio piccolo sito, il loro appello, nella speranza che qualcuno dei miei contatti lo legga e se ne faccia ulteriormente portavoce.

Un medico, una figura centrale della vita quotidiana di un paese, specie se il più vicino presidio sanitario è a un’ora di auto. E in periodo di pandemia non è proprio il massimo.


Si fa tanto parlare dello spopolamento dei territori – discussioni, convegni, articoli – e di salvifiche tecnologie, turismo e startup. Tutto bello, ci mancherebbe, ma ecco, cominciamo a salvare i servizi fondamentali. I diritti dei cittadini, anche di quelli che vivono lontani dai grandi centri abitati.

I seuesi – tra cui il caro amico Stefano Gaviano, uno dei giovani più attivi nel territorio – non si son dati per vinti e, dopo tanti appelli, hanno scritto a Gino Strada di Emergency.

Seui 21-02-2021
Gentilissimo dottor Gino Strada,
ci appelliamo ad Emergency e alla vostra notoria empatia e disponibilità verso tutte le persone in difficoltà.
Siamo una piccola comunità del centro Sardegna, Seui, sorge tra i monti della Barbagia e conta tutt’oggi circa 1300 anime.
Dal 31 dicembre 2020, in piena crisi pandemica, siamo privi del medico di base, tale fatto scaturisce dalla totale incapacità delle istituzioni regionali di provvedere alla dovuta sostituzione della suddetta figura, disattendendo totalmente il diritto alla salute ed all’assistenza in genere, garantito dall’articolo 3 della nostra Costituzione.
Attualmente ci dobbiamo appellare alla disponibilità, al buon senso e alla buona volontà di un medico, e delle guardie mediche, alcune ore alla settimana, che garantisce un minimo servizio, più burocratico che sanitario ( compilazione delle ricette essenziali e prescrizione dei farmaci ).
E’ evidente che questa situazione crei disagio ed un concreto rischio alla vita delle persone. In merito a ciò ci sembra doveroso segnalare, in questi due mesi, un aumento esponenziale dei decessi, dovuti sicuramente ad un disservizio che sta colpendo tutte le fasce anagrafiche del nostro paese.
Il disagio è aumentato dal fatto che la nostra comunità disti dal più vicino presidio sanitario essenziale, in condizioni ottimali, oltre un’ora di auto.
Assistiamo inermi al fatto che la sanità pubblica da servizio essenziale stia diventando appannaggio delle elitè economiche, sociali ed anche geografiche, svilendo la dignità degli ultimi residenti delle aree interne della Sardegna, ormai ridotti al rango di “riserva indiana”.
Tutto ciò considerato, Emergency rimane la nostra ultima speranza e dunque chiediamo la vostra disponibilità in modo che “NESSUNO RIMANGA ESCLUSO”!

10.11 Gratitudine


Grazie, grazie, grazie, a tutti quelli che si son ricordati del mio compleanno ieri.
Non so se riuscirò a rispondere a ogni persona, come vorrei, ma ci proverò.

Certo, pensare che per ogni compleanno oramai ero in giro per il mondo e oggi vivo insieme a voi questi giorni di incertezza facendo viaggiare solo la mente è strano. Ma anche da questo bisogna trarre il meglio.

Una giornata normale ieri, come tante. Scrittura, musica, scadenze di lavoro, famiglia e una visita al mio caro papà al cimitero.
Tante riflessioni sul tempo che passa e sulla necessità di non perdere attimi preziosi che mai torneranno. Di non essere mai indifferente al dolore, di arricchire le vite altrui con parole e musica.
Di continuare a respirare mordere la vita senza paura e senza rinunciare a ciò che ci riempie il cuore e l’anima.

Grazie ancora a tutti! ❤️

(Qualche giorno fa, a Calasetta)

Carloforte, Mediterraneo

“Cosa posso farci, se io sono nato nel Mediterraneo?”
C’è sempre qualcosa di speciale nelle città di mare e prendere un traghetto e sentire anche solo quell’odore acro di gasolio, ferraglia e salsedine, la spuma e l’approdo in un altro luogo ti riconcilia con la vita.
Alle 18 la bianca Parrocchia di San Carlo Borromeo rintocca e i pochi fantasmi per il centro si diradano.
I bimbi tristi puntano le bici verso casa e tante piccole lucciole si perdono nelle ombre della sera. Gli anziani stanchi cominciano la camminata, i bar riordinano le sedie e chiudono i conti in cassa.
Tutto si ferma in questi angolo di Mediterraneo, lontano dalle ansie del mondo e dagli stress delle metropoli.
Resto io e pochi temerari a sfidare questo lockdown mentale. Forse solo io. Camminando per il dedalo di strade che nascondono segreti di famiglie, decifrando rumori di pompe di calore, guardando insegne curiose, menù disposti sugli angoli, chiacchierate lontane e motorini, profumi di forno a legna e venticello che solletica la pelle. A un certo punto sono davvero solo: mi siedo nei gradini e mi faccio cullare dalla magia del momento sicuro che nessuno in questo angolo di terra, tra questi scalini con ciuffi d’erba casuali, possa disturbarmi.
“Cosa posso farci, se io sono nato nel Mediterraneo?”

Cose bellissime quando mi perdo

Accadono cose bellissime ogni volta che mi distanzio dal mio centro di gravità e mi perdo nella natura di Sardegna.
Parcheggio la macchina e inizio a correre senza sapere bene dove. L’obiettivo è vedere spiagge, luoghi, perdermi, trovare qualcosa che nemmeno so, forse il mio Gral.

Il fiato c’è, le prime macchine di rientro mi incrociano, il sole mi guarda da sopra i monti. Alberi, erba, stagni e mare. Villette e profumi di caminetto. Qualche ristorante coraggiosamente aperto. Arrivo alla spiaggia Cipolla, troppe auto, scendo a Su Giudeu. Delle tipe da sole camminano con la mascherina. Detesto le macchine che alzano la polvere.
Pochissima gente, il sole è calato senza dirmi niente. Mi trovo immerso in quella sensazione di infinito tra stagno, secca e spiaggia. Mi tolgo le scarpe entro in acqua. Mi godo quell’attimo fantastico di colori e rumori del mare.
Il cellulare è scarico. Mi abbandona. Mi sento qualche attimo disorientato. E mo’, come farò senza musica? Come potrò immortalare questo momenti?
La paura, stupida, passa veloce. Mi godo quel tempo unico e speciale. Inizio a camminare sulla riva. Niente musica, solo rumori.
Arrivo alla spiaggia del Chia Laguna, superando uno scoglio. Mi rimetto le scarpe. Sono solo e le prime luci raccontano che è sera inoltrata. Penso che quella solitudine sia tutt’altro che preoccupante: mi rassicura, mi soddisfa, rischiara i pensieri. Inizio a camminare verso la macchina, accompagnato da rumori di natura e profumi che pensavo di aver perduto. Parlo con me stesso, che se mi vedessero mi darebbero del pazzo, specie perchè son vestito con una felpa del Cagliari di almeno dieci anni fa ed è strano.
Spero non ci sia nessuno non tanto per questo ma perchè mi urterebbe incrociare qualcuno. Romperebbe tutto. E allora penso in questa disconnessione, a quante cose sono diventate non essenziali nella nostra vita. Uso proprio quella schifosa espressione governativa che però parlava di lavoro e vite di persone.
Io credo alla non essenzialità di tante cose e persone che ci circondano.
Mi accorgono di non sopportare più la vita di città, i commentatori stronzi dei social, le ossessioni del marketing, stare fermo, i talk show, gli editoristi, i pallonari, gli operativi e i produttivi, la perfezione, le sentinelle dei comportamenti altrui, la rincorsa al successo, lo stress, l’ansia da prestazione, l’abbandono dei sogni, i perfettini, i moralisti, i pregiudizi, i politicanti da strapazzo, i giornalisti che avvelenano la gente, la noia, i titoli ad effetto, i perbenisti, la maleducazione, i moralisti, agli arruffoni, le file nei supermercati, il presenzialismo, gli arrampicatori sociali e i personaggi in cerca d’autore.
Che una vita senza cercare bellezza, senza respirare con intensità ogni giorno, impauriti e legati a qualcosa, senza provare a circondarsi del meglio sia una vita perduta. E che dobbiamo esplorarla, fosse anche fino agli ultimi giorni.

In questo momento di banali riflessioni,vorrei avere una tenda e passare la notte qua e non avere nessun tipo di distrazione e di scadenza, non ricevere i messaggi, non ricevere le notifiche di niente, non essere atteso da nessuno e non aver nessuno che aspetta risposta alla mail.
E mentre l’unico riferimento ora che tutto è buio è la Torre di chia guardo senza invidia la gente che corre a casa ossessionata dall’idea che questo non sia un momento magico per vivere e che bisogna per forsa “dover tornare”.
Invece, no, mi voglio sempre arricchire di situazioni di emozioni nuove, di persone che mi stimolino per fare cose interessanti ma senza dimenticare la bellezza della semplicità di un tramonto e di un mare lontano, fermare il tempo per scrivere e leggere, magari mi porteranno a capire ed abbracciare i ragionamenti più complessi.
Carne, anima, sangue.

Ora è davvero buio, la mia macchina è l’unica parcheggiata nello sterrato dove anni fa caddi in un fosso con la macchina portando in camporella una tipa e venni salvato dai turisti. Chissà che avranno pensato gli altri visitatori, che sono morto o sono folle ad andare a correre da solo, il 1 novembre a Chia, chissà che problemi avrà. Ed è la sensazione che qualcuno leggendo proverà.
Chissenefrega, è la risposta giusta.

Storie essenziali: Cristina e Oscar

Mi scrive una cara amica, che ha un bar in centro a Cagliari, Avventura Cafe’, Via Campidano, 1/C
Si chiama Cristina e l’ho conosciuta anni fa nella gestione di un chiosco al Poetto.

Penso a tutti gli amici che hanno un bar o un ristorante. Penso a quanti sforzi e quanto sudore… a chi dice che questo non sia essenziale.

“Tutte le mattine mi alzo e, mentre faccio colazione, telefono ad Oscar (che ha aperto il bar)…
Da maggio, quando abbiamo riaperto, in quella telefonata c’è una domanda non espressa… “C’è gente?”. La risposta è sempre la stessa.
Allora io mi preparo, porto fuori il cane e raggiungo il mio locale, indosso il miglior sorriso e lo offro ai pochi clienti che arrivano.
Chissà se lo capiscono quanto ci costa quel sorriso, quanto è dura poterglielo offrire, quanta fatica e tenacia dobbiamo cercare dentro di noi, quotidianamente, per proseguire quando tutte le notizie che arrivano sono negative.
E non si dica che ci hanno aiutato: ci è stato assegnato un prestito, mai arrivato per altro, ma pur sempre e solo un prestito. E intanto lo smartworking viene prorogato. E la mia clientela, sostanzialmente di impiegati, è a casa…
Ora vi lascio, devo andare ad indossare il mio miglior sorriso, velato di lacrime ed angoscia, ma da fuori non si vede…”

Racconto distopico

La gente era talmente impaurita che non usciva più di casa, nonostante non ci fosse stato un decreto che lo imponesse.
Coprifuoco, lockdown, mascherine, distanziamento, terapie intensive, erano le parole oramai entrate nel lessico collettivo.
Non ci si scambiavano più sguardi e sorrisi che potevano essere letti come tentativi di fratellanza e condivisione. Venne vietato quasiasi divertimento, incontro, momento di svago. Avrebbe urtato la guerra in atto.
In Tv la nuova sacerdotessa D’Urso proponeva servizi improntati sull’educazione pubblica e sul linciaggio mediatico attraverso elicotteri gentilmente prestati dalle forze dell’ordine, i tribunali pubblici erano condotti da Selvaggia Lucarelli, il dottor Burioni parlava a reti unificate e ogni 3 minuti uno spot aggiornava il dato degli arrestati e dei sanzionati.
L’esercito della salute, composto da biechi impiegati del terrore, pensionati professionalizzati dall’osservazione dei cantieri, giovani squadristi neolaureati e saccenti in servizio permanente, girava mattina e sera per le città segnalando prontamente i trasgressori cominciando dalle categorie più pericolose: i giovani, gli artisti, la gente della notte e chiunque su facebook avesse anche lontanamente messo in dubbio che tutto era giusto e sacrosanto.
L’altra sera fucilarono uno, reo di non portare correttamente la mascherina mentre camminava solingo al Terrapieno. “Infame, untore, nemico del popolo, negazionista!” Gli urlarono e giù colpi d’arma da fuoco. I suoi poveri resti furono esposti in piazza d’Armi e poi portati al Bastione, come monito ai trasgressori, per lo più giovini, e nella foto i like raggiunsero più di milleduecento unità.
Plausi delle autorità, che vedevano realizzare un sogno. Un popolo incapace di porsi qualsiasi ragionevole dubbio e di poter esercitare la minima libertà di pensiero.

Contro la felicità altrui, si uccide

“Li ho uccisi perché non sopportavo che fossero felici”. Così racconta il killer di Daniele ed Eleonora.
La felicità altrui, magari raccontata sui social, disturba. Me ne accorgo da certi commenti e atteggiamenti in rete.
Se non si arriva al gesto del delitto, si possono fare tante altre cose per evitare che gli altri siano felici. Le chiacchiere, le dicerie, i sotterfugi e i tentativi di danneggiare.
Ho conosciuto donne e uomini velenosi per non dire infami, capaci delle peggiori cose. Per qualcuno ho perso lavori e amicizie. La vicinanza sociale nella nostra isola, i vicinati e le comunità ristrette amplificano questi gesti.
Viviamo in un mondo di frustrati che buttano sugli altri le cause dei propri insuccessi e le rovine della propria vita.
Bisogna allontanare subito le persone che detestano la felicità altrui e circondarci di persone che tifano per noi!

La panchina di Nuxis

C’è una panchina solitaria nel sole cocente di un lunedì agostano a Nuxis. Vicino, un cartello ricorda che i bimbi giocano ancora in strada.
Segnale di speranza, anche se di bimbi neanche l’ombra. Per la verità, non passa nessuno qui alle tre del pomeriggio, nessuno sfida sa mama ‘e su sole in questo angolo di Sulcis a metà tra terra e mare, vento caldo e profumi di campagna.
Mi accomodo dentro, aspettando che il pullman arrivi. Le lamiere della panchina prefabbricata nascondono un’inattesa frescura mentre un’anima di uomo, gilet chiaro e pantaloni marroni si aggira per la strada, guardando quel ragazzo seduto e chiedendosi “chi è sto fesso che parte alle alle tre e mezzo da Nuxis?”.
Se lo chiede anche una donna, che sta pulendo il suo balcone e all’incrociare degli sguardi decide di rientrare dentro chiudendo le tapparelle: “chi è sto fesso che parte alle tre e mezzo da Nuxis?”. Se lo chiede anche l’autista che accosta dal lato opposto della strada e fa salire l’unico passeggero, il sottoscritto, nel pullman direzione Cagliari. Un freddo gelido, ma mai ai livelli dei bus spagnoli, mi accoglie. Chiedo se debba usare la mascherina dentro e come funzioni la vidimazione del biglietto online, “sa, non uso l’Arst da molto…”. L’autista, disinteressato per il mio tentativo di essere simpatico, mi guarda e non pare esser felice di questo improvviso outing. “Chi è sto fesso che parte alle tre e mezzo da Nuxis” si sarà chiesto.
Quando usciamo da Nuxis l’uomo al volante, camicia d’ordinanza e occhiali che sembrano rayban ma non lo sono, sa che dovrà affrontare una mezz’ora di curve. Le affronta con la certezza che dovrà fare attenzione ai tornanti, ai punti più critici, per poi guadagnare tempo in quelli più agevoli. Ma conosce la strada e affronta quel tratto senza troppi indugi.
Il condizionatore sputa freddo per l’unico passeggero, io, felice di immaginarmi perso in qualche angolo d’Europa, possibilmente mediterraneo. Mi ricordo le scorribande in Spagna, le costiere del Portogallo e un po’ di Turchia. Autobus che tracciavano strade e confini portandomi in lembi di terra lontani.
Quando appare da lontano la piana che porta all’hinterland di Cagliari, con il suo carico di ansie mentropolitane, di velocità e di lavoro, di musiche reggaeton e rifiuti dimenticati, eccomi tornare con i piedi per terra.
Il bus lancia la volata facendo l’occhiolino al Castello di Acquafredda, dove i tornanti sono un ricordo e la strada si fa semplice. Poi ancora Siliqua e Assemini. Il sogno lentamente svanisce, così come la sensazione di essere in un altro punto, altrove, lontano. No, son di nuovo centrale. Quella sensazione che ti vorrebbe perennemente in moto, partenze e arrivi e ancora partenze, come se le destinazioni fossero solo pretesti, perchè il bello sta nel tragitto, il resto non conta mai.

Sul Lungomare del mondo

Poche città in Sardegna hanno un lungomare. Non è così scontato anche se siamo in un’isola.
Il lungomare non è solo un luogo fisico, una strada, un lastricato, è un’esperienza di vita, una filosofia, un modo esistenziale, un affacciarsi al mondo e alle sue vicissitudini.
Avevo promesso di tornare ed eccomi qui, per fortuiti impegni di lavoro e per chiedermi «cosa posso fare io per la Sardegna?». Scoprirla, sentirla, senza la presunzione di capirla. Anche se cerco in Sardegna cose che difficilmente fanno parte dell’immaginario tipico del turista. Non la massa, non la spiaggia patinata, non il luogo strafrequentato. Cerco leggerezza e malinconia, cerco ancestralità, che sono parole complesse in un mondo sempre più assetato del peggior marketing, quello che dimentica il valore assoluto delle persone.

C’è questo lungomare allora, dove il profumo della salsedine si appiccica in stanche ma dignitose barche dai nomi diversi, femminili più che altro, ormeggiate in maniera quasi casuale e in attesa di riprendere il mare. L’ansia di chi si sente oppresso da una corda che lo lega.
Dove il profumo dei primi fritti a cena che le famiglie e le coppie aspettano con ansia aleggia insieme a gabbiani che descrivono geometrie.
Dove a una certa siamo rimasti in pochi a goderci un inutile mercoledì senza pensieri, lasciando scorrere via le amarezze e le delusioni dell’anima e riabbracciando il senso profondo.
Da onesti nomadi digitali, da dj senza fissa consolle, da scribacchini senza libro, viaggiatori precari riusciamo ancora a emozionarci davanti al mare.

In riva al mare

Ora sono di fronte al mare. Il cielo è nuvoloso come fosse ottobre. I ragazzi e le famiglie giocano spensierati. Il mare è una tavola liscia. L’aria è fresca e questo è un momento magico. Adoro il mare senza il sole, queste giornate incerte che non sai come si evolvano.

Nel pc c’è l’ultimo progetto editoriale, uno dei tanti su cui mi sbatto ogni giorno. Purtroppo il computer si è riavviato e ho perso il lavoro di un’ora. Maledico la mia disattenzione e provo a capire il perchè.

Ci sono sogni che posso raccontare che poi obiettivi su cui mi misuro ogni giorno.
Dopo vent’anni, mi auguro almeno altri vent’anni da DJ, poco importa se diranno – lo fanno già ora – che sono vecchio e passato o scarso. E poi che la mia piccola attività di comunicazione e ufficio stampa che ora è bella impegnativa si sviluppi ancora molto. Possa fare del bene per tante persone che puntano su di me, assumere buoni collaboratori e dare lavoro ad altri, specie nella mia Terra.
Restare sempre autonomo e indipendente, anche se significa restar “piccoli” in un mondo di squali.