Posts in viaggi

Hyde Park e passeggiate londinesi

È un sabato mattina londinese e sono immerso in un crogiolo di tutto e di più. C’è la musica – oh, la musica! – un tappeto sonoro che mi segue ovunque, modulando il suo ritmo in perfetta armonia con il contesto spaziale-temporale. Read More

5 motivi per viaggiare da soli seguendo il proprio ritmo

Viaggiare è uno dei modi migliori per arricchire la propria vita e ampliare le proprie prospettive. Mentre molte persone preferiscono viaggiare in compagnia di amici o familiari, c’è qualcosa di straordinario nel fare un viaggio da soli.

Se sei un amante dei viaggi e un appassionato di scoprire nuovi orizzonti, viaggiare da soli ti darà tante altre soddisfazioni.

Da molti anni, ho scelto di abbracciare questo modo unico e gratificante. Una modalità di esplorazione del mondo, per alcuni assurda, diventata non solo una passione, ma un’autentica forma d’arte e filosofia che ho perfezionato nel corso del tempo.

Ecco allora cinque ragioni per cui ho scoperto e amato il viaggiare da solo.

1. Libertà Assoluta

Una delle gioie di viaggiare da soli è godere della libertà assoluta di pianificare il tuo itinerario come desideri. Non c’è bisogno di compromessi o di adattarsi agli interessi degli altri. Se desideri esplorare un museo d’arte, immergerti nella cultura locale o semplicemente rilassarti in una tranquilla spiaggia o fermarti per ore al bar, sei il capitano della tua nave. Questa libertà ti consente di seguire i tuoi istinti e di adattare il viaggio alle tue esigenze e passioni.

2. Auto-Scoperta

Il viaggio da soli offre un’opportunità unica per conoscersi meglio. Quando sei lontano dalla routine quotidiana e dalle influenze familiari o sociali, hai l’opportunità di esplorare i tuoi pensieri, desideri e ambizioni. Questo processo di auto-scoperta può portare a una maggiore consapevolezza di te stesso e delle tue aspirazioni nella vita, ma anche a un’apertura nei confronti del mondo.

3. Incontri Significativi

Sebbene tu stia viaggiando da solo, sarai sorpreso da quanti incontri significativi potresti fare lungo il percorso. La solitudine spesso attira l’attenzione degli altri viaggiatori o degli abitanti del luogo, aprendo la porta a nuove amicizie e connessioni interculturali. Questi incontri possono arricchire la tua esperienza di viaggio in modi che non avevi mai immaginato. C’è un altro aspetto: dovrai obbligatoriamente interagire con gli altri! E quindi sarai costretto a parlare, chiedere, farti avanti!

4. Crescita Personale

Il viaggio da soli può essere una sfida, ma è anche un’opportunità straordinaria per la crescita personale. Imparerai a essere autosufficiente, a prendere decisioni rapide e a risolvere i problemi in modo indipendente. Queste abilità possono tradursi positivamente nella tua vita quotidiana, rendendoti più sicuro di te stesso e resiliente di fronte alle sfide.

5. Apertura Musicale (consiglio tipico da DJ)

Come appassionato di musica, apprezzi la libertà di ascoltare i tuoi brani preferiti quando vuoi. Durante un viaggio da solo, puoi creare la colonna sonora perfetta per la tua avventura. Che tu sia un amante della musica house, dance, techno o folk, puoi immergerti nel tuo genere preferito e sperimentare la musica locale in modo indipendente.

Il viaggio da soli è un’esperienza straordinaria che offre libertà, crescita personale, apertura mentale, incontri significativi e l’opportunità di scoprire te stesso in modo più profondo.

Con anni di esperienza nel viaggiare da solo, posso testimoniare quanto questo possa arricchire la tua vita. Non aspettare allora, non fidarti dei cattivi consigli e di chi lo vede come un assurdo! Prepara la tua prossima avventura solitaria per scoprire il mondo a tuo ritmo, con la tua musica preferita come colonna sonora e il tio zaino come amico fedele! 😉

Che aspetti?

Sitges e la Catalogna, le due facce della Spagna

Prendere i treni di notte in stazioni vuote è una ginnastica per l’anima.

Lascio Sitges come sta per piovere.

La vitalità di queste città iberiche sul mare, così uguali con il “solito” lungomare di spiagge lunghissime, ristorantini, caffè , case basse e centro storico medioevale è sorprendente.

Ogni angolo rivela una ricchezza di storia e cultura, unendo il passato e il presente.

La Spagna e la Catalogna sono così, l’ho capito: tradizionali e rispettose del passato, tenuto orgogliosamente vivo delle insegne dei negozi fino alle feste religiose, ma pure consapevoli del presente e del dinamismo della società. Un compromesso, come nella lingua che rimastica i termini inglesi e li propone nella versione locale.

Si respira sempre una grande vitalità. La musica, il movimento continuo della gente, le birre come fosse una fabbrica, l’olio in ogni dove, la spiaggia come un agorà, i bimbi che giocano ovunque a pallone con le maglie del Barcellona, i parchi e le piazze affolate di giovani e anziani e la chiacchiera quasi fastidiosa della gente.

Non a caso qui è passato, leggo, anche il Modernismo catalano. Gli artisti continuano a trarre ispirazione perché l’aria sfuggente glielo suggerisce.

Ho incrociato così la storia di Santiago Rusiñol y Prats, artista, scrittore e drammaturgo catalano che ha esercitato in un’epoca di impressionante effervescenza nella cultura di una Catalogna borghese e cosmopolita.

La Chiesa di Sant Bartomeu i Santa Tecla, quella che si nota in ogni cartolina e foto, sembra quasi tuffarsi in acqua. Una bella scoperta all’interno: è ricca di ornamenti e di particolari. La trovi vicina al mare – strano, rispetto al solito – una sentinella silenziosa, un baluardo dalla furia delle onde che oggi non hanno dato tregua. Divide la città in due, così come due spiagge, la Platja de Ribeira e de La Fragata e quella di San Sebastià.

Proprio vicino alla Chiesa c’è il museo del Cau Ferrat fondato da Rusinol per conservare e mostrare la sua collezione d’arte. L’ha donato alla città per l’affetto che provava.

Quanto l’amore per gli artisti ha dato lustro alle città? Ma questo amore non va isolato: è poi attaccamento continuo di chi ci vive.

That’s all fuck!

Il Viaggio che sa di Cammino sta per finire.

Ho ancora un po’ di tempo per me come le ultime Brooklin incartate d’argento che spuntavano dalle tasche dei Levi’s prima della scritta minacciosa BENVENUTI A CAGLIARI.

La stanchezza affiora. Le gambe – per fortuna – resistono bene, la testa pure. Aveva ragione è quell’amico che fa il verso al venerdì per dirmi “le gambe sono tutto!”.

Le storie sul quaderno sono avanzate. Ho fatto foto, pochssimi video. Ho ascoltato poca musica seguendo più i rumori e i silenzi. Ho corso un pochino, quanto bastava per dire che l’ho fatto. Ho camminato molto. Credo che in totale abbia accumulato non meno di cinquanta chilometri, tanti con lo zaino di oltre dieci chili. Mi accorgo che posso togliere ancora qualcosa per renderlo più leggero. Una maglia in meno e forse il computer. I libri letti con l’ebook non sanno di nulla, sono sesso senza coito.

Ho meditato ogni giorno provando a cogliere l’energia dei luoghi, il genius loci. In alcuni casi mi son immerso, in altri ho dovuto aspettare, in altri mi son sentito estraneo. Ho imparato qualche parola e frase di castigliano che non avevo. Ho letto in catalani. Ho visto e ballato la sardana. Ho fatto tante gaffe. Non ho capito cosa mi dicevano gli altri e ho risposto YES. Ho incrociato storie di artisti e persone che voglio approfondire. Ho letto un po’di Pessoa e Proust, faticosi e intensi che meritano attenzione e cura. Potevo mangiare meglio, questo è vero. Ho riaffermato il mio amore per i treni, specie la notte, e la salvezza dei bus.

El prat è immenso, ma senza poesia. Le vetrine patinate, i caffè con logo studiato, le cose unitili del duty free.

Due persone urlano. Riconosco la parlata. “Lo vedi che imbarcano là?!”. Nella moltitudine dell’aeroporto sono protagonisti della scena. Sono sulla strada giusta per il gate. Incontro un amico che non vedevo da tempo immemorabile. Anche lui è innamorato di questo paese e ha la fidanzata spagnola. Chiacchieriamo e raccontiamo un po’ di esperienze e viaggi, paesi da vedere e scene da viaggiatori. Tipo che quando l’aereo atterra nella nostra città tutti si alzano in piedi prima che il comandante tolga l’indicazione delle cinture. Sorridiamo anche perché l’aereo per Cagliari sia sempre parcheggiato in fondo alle piste.

Caos allla partenza. Bagagli che volano. Davanti a me un sardo dice a uno spagnolo che ha lagato per avere lo zaino in cappelliera, ma lo spagnolo gli chiede di metterlo sotto che altrimenti non sta il suo trolley. Alla fine stanno tutti e due. Le hostess sono le più pazienti e sorridenti che abbia visto.

In volo vicino a me c’è una coppia spagnola che legge un portentoso volume turistico sulla Sardegna. Si sofferma sul Sulcis. Confermo l’ottima scelta con una frasettina che mi preparo da Google traduttore.

Atterriamo. Il venticello caldo e umido della Sardegna. La prima scala mobile non funziona. Cartelloni sardi. Sardo buono, sardo bello, compra sardo. Non rubare la sabbia ched’ è peccato. Lo sguardo degli agenti della finanza. Niente sapone nei bagni. “Ha cambio?” solita scena al bar con quello sguardo di traverso che solo noi, solo noi, canterebbe Cutugno.

Stazione di Elmas Aeroporto. L’obliteratrice non funziona. I turisti hanno timore di essere multati. Un anziano francese fa la foto alla rotaia e sorride. Nessuno a cui chiedere. Avremo sbagliato posto?

Il treno ha la temperatura di un discount d’estate. Una voce squillante ricorda gli abbonamenti pendolari. Il controllore ha un codino, un ciuffo bianco e doppio orecchino. Controlla con tono gentile. Tempi che cambiano.

Niente fermata a Santa Gilla, che poi mi chiedo ancora a cosa serva. Domande senza risposta.

Stazione di Cagliari, corsa finita.

Piazza Matteotti. Transenne. Cacca di cane. Panino mangiato a metà. Sguardi torvi. Transenne. Solo i turisti hanno sguardi curiosi e pieni di fiducia.

Poi ci sono io, viaggiatore a casa mia. Che poi casa mia è un concetto pericoloso, prevede un proprietà e la presenza di un “altro” che non sarebbe a casa.

Fine della poesia. La più grande missione è trovarla ancora, in una terra bella e violentata, che come me ha paura del mare e di tutto quello che c’è fuori. Quella poesia, dove si è nascosta? Questo bel venticello da qualche parte ci porterà.

Reggaeton e museo di Dalì

Accade una cosa curiosa mentre mi allontano dalla casa di Dalì e dal suo mistero della creatività.

Mi attraversa un ritmo incessante che arriva forse da una macchina. Musica reggaeton, ci metto un attimo a capirlo.

Mi fermo ancora al piccolo bar Llevante, sperando di ritrovare un po’ dell’atmosfera della casa di Dalì. Bevo un altro caffè, osservo le persone che passano: figli che seguono i genitori con volti dimessi dall’obbligo di vedere il Museo, turisti con i cellulari, donne che chiacchierano tra loro spalmandosi creme protezione 50. Tutti sembrano immersi nei loro mondi e il contrasto tra l’arte e la musica moderna mi fa riflettere sulla diversità.

Il reggaeton mi suona stridente, come se un granello di sabbia fosse entrato in un delicato meccanismo orologiero, alterandone il ritmo. La voce acidognola del cantante, piuttosto che evocare un’atmosfera festosa, si intromette con l’aura magica e eccentrica della casa di Dalì.

Tornando con la mente al labirinto di stanze e ai quadri surreali, quel suono diventa un fastidioso ronzio, quasi un’irruzione brusca nella serenità.

Mi chiedo se la stessa irritazione che provo in quel momento sia la stessa che Dalì avrebbe sentito, lui che aveva cercato in ogni modo di sfuggire alla banalità e alla monotonia della vita quotidiana attraverso la sua arte.

Come avrebbe reagito? Forse avrebbe sorriso, apprezzando il contrasto? Forse avrebbe urlato dalle finestre della sua dimora “spegnete quella schifezza”? O forse avrebbe dipinto un quadro, unendo i due mondi in un’opera d’arte?

Devio mio percorso lungo una strada laterale, sperando che il suono si attenui. Ma, nonostante la mia avversione momentanea, rifletto sul fatto che, proprio come l’arte di Dalì, anche quella canzone reggaeton è un prodotto della creatività umana, una manifestazione di un’epoca e di una cultura figlia dei nostri tempi. E, proprio come l’arte, anche la musica ha il potere di evocare reazioni viscerali, di piacere o di disappunto.

Forse semplicemente basta allontanarsi, come faccio, per non esserne avvolti senza sentirsi in dovere di giudicare. Camminare per la strada e incontrare la beatitudine di una chiesetta semplice, Ermita di Sant Baldiri, dove unartista sconosciuto espone le sue foto immerse nella nebbia e vicino c’è un piccolo cimitero che guarda il mare.

Forse è sempre e solo questione di movimento.

Da Siviglia in autobus verso Sud, destinazione Tarifa

Da Siviglia in autobus destinazione Tarifa ci vogliono ben tre ore. Dovrei farcela. Poi ci sono i fuori programma. L’aereo da Cagliari tarda mezz’ora. Problemi di autorizzazioni al decollo, spiega il comandante con un forte accento inglese.

Prima di raggiungere la aiuola di sosta qualcuno si alza e viene rimproverato al microfono da una hostess. Stesso rimprovero per un gruppo di turisti che sosta in pista in attesa forse di altri compagni viaggiatori. La grande scritta SEVILLA e un sole secco e deciso mi abbracciano quando arrivo nel sud della Spagna. 

La prima cosa quando arrivo in un altro paese è allontanarmi dai connazionali: sì, capisco che forse per alcuni sembrerà strano, ma non voglio più sentire una parola di italiano e abbandonarmi al luogo.

Il tempo è poco, ho il bus alle 14 in punto, meno di un’ora per andare in stazione, una follia se dovessi utilizzare il bus che collega l’aerostazione con il centro città. Manovro con il cellulare: la scelta è tra Cabify, che non ha mai usato, e Uber. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste. Venti euro per la stazione Plaza Das Armas. Il budget va subito a farsi benedire, ma non ho altre scelte. Perderei il biglietto del bus e non so.

Il mio autista si chiama Pedro Jesus e arriva con una corolla nera. Lo seguo impaziente dall’applicazione. Le indicazioni dicono di andare a sinistra, e trovare il parcheggio. In realtà lui mi aspetta al parcheggio davanti. Per fortuna scrive. Lo ritrovo nella selva di auto che aspettano altri clienti. Forse Uber non può avvicinarsi per un qualche patto con i tassisti. Controllo le targhe, eccola!

“Nìcola!”, mi grida qualcuno. Sbuca da lontano l’autista con un sorriso e mi aiuta subito per lo zaino. Viaggio leggero, senza impedimenti, da un po’ di tempo. Lo zaino è l’essenziale e viaggio dopo viaggio ti misuri sulla ricerca del minor peso. Ad ogni viaggio posso ancora togliere qualcosa!

Siviglia è come me la ricordo. Bianca, sontuosa, soleggiata. La macchina costeggia il Casco Antigo, mancano dieci minuti alla stazione e per puro scrupolo riguardo il biglietto del bus. Sai quelle volte che vuoi essere sicurissimo di non sbagliare? E infatti, ecco l’errore: non parto da Plaza das Armas, la stazione grande, il terminal di città, ma da Prado San Sebastian! E dov’è?  Quasi mi vergogno di dirlo al tassista, ma poi trovo coraggio per dire che ho sbagliato, in un mezzo italiano, spagnolo e inglese figlio della fretta e della paura. Lui mi capisce e non so che accada in questi momenti, specie con Uber e con una prenotazione. 

Siviglia ha una tradizione di stazioni sbagliate con me molto interessante: tre anni fa per poco non perdevo il treno sbagliando la stazione. Là il tassista fece davvero miracoli violando almeno una decina di articoli del codice della strada e facendomi salire sul treno cinque minuti prima. O forse il tempo si fermò per me! 

Pedro Jesus mi chiede di ricambiare la prenotazione dall’applicazione, spenderò 2 euro in più. La stazione sembrava più vicina ma è quasi sul fiume Stura. Seguo il percorso sul cellulare, ansioso: arriverò otto minuti prima della partenza. Ne mancano diciotto, ma non si sa come a un certo punto Google Map si aggiorna e diventano cinque. Sospiro di sollievo. Tutto quadra! Un colpo fortunato.  

La stazione di San Sebastian, incastrata in un labirinto di strade, è piccola. Partono e arrivano i bus da tutte le province dell’Andalusia – Cadice, Cordoba, Jaen, Almeria, Malaga e Granada – e dalle principali cittá spagnole. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste.Stazione di Prado San Sebastian, Siviglia

I bus in Spagna collegano tutta la penisola con un servizio davvero efficiente, nulla a che vedere con le sgangherate mobilità di casa nostra. Vengono puliti anche durante i tragitti, hanno connessione wifi – non sempre efficiente, dico il vero! – e son comodissimi. I tempi non son di certo quelli del treno, che comunque non vi fa arrivare ovunque in Spagna, ci sono ampie zone dove di rotaie non c’è nemmeno l’ombra, ma c’è la bellezza di una ulteriore lentezza, di vedere i paesi con un occhio più spensierato e senza spendere troppo. Mezza Spagna l’ho girata così!
Chiedo a un autista della compagnia Omes vicino al bus con la scritta Algeciras se passi anche per Tarifa. Mi dice che non è il suo mezzo e poi aggiunge “unos nueve!” indicandomi poi la piattaforma 19. Il bus non c’è ancora. Ho tempo per comprare una scorta d’acqua per riempire la borraccia e andare in una toilette dal sapore franchista. 

La stazione ha colori gialli e bianco, una serie di panchine al centro e una ventina di piazzuole di sosta. Alla partenza c’è una famiglia araba, una coppa di tedeschi, e ancora un signore che legge un giornale da cui non si stacca per buona parte del tragitto e altre donne che viaggiano da sole (una di queste scoprirò essere pure sarda!). Altri arrivano un attimo prima della partenza, ottima tempistica! Io non ce la farei!

L’autista controlla la mia prenotazione online, mi guarda e mi dà l’ok per salire. Prima di partire e salire urla in stazione “Algeciras” come ultima chiamata. Una signora si avvicina e cantilena che prenderà il prossimo. L’autista le risponde di fare come vuole e la salute prima di chiudere la portina con lo sbuffo.

Usciti dalla città affrontiamo chilometri e chilometri di campi e terre seminate. Ci sono campi di girasole, canna da zucchero, fichi e file di alberi lontani. Amo i tempi lunghi dei viaggi, mi fanno fare ordine nella testa. Mi chiedo sempre se debba lavorare, scrivere o semplicemente godermi il paesaggio attorno. Nel volo aereo ho rimesso ordine agli impegni di questo periodo, ho pensato, ho finito un libro da leggere, ho dato senso ad alcune cose che non si smuovevano. E anche ora che sono in pullman, amo quella leggerezza che mi permette di stare così, solo con i miei pensieri, senza nessuna altra distrazione. Non devo far altro che aspettare l’arrivo. Saranno ben tre ore, c’è una persona che guida per me, un mezzo che dolcemente scivola su una strada, nessuno che mi aspetti e nessun appuntamento in vista con lo stress del dovermi spostare in auto. 

Ripenso alle uscite ogni giorno, al traffico che da quando ho vissuto a Milano odio sempre di più – quello di Cagliari è roba da dilettanti, ammettiamolo – allo stress di dover conquistare un posto, di dover stare attenti agli inganni della circolazione, alla corsa senza fine degli altri. La macchina è uno dei fattori di maggior stress, insieme ai social e a whatsapp!

Da tanti anni ho provato a mettere una marcia più bassa. Sono consapevole che non sia possibile più correre. Mi godo il viaggio come impegno di lentezza e consapevolezza, come esercizio di gioia.  In cuffia arriva un giro di note finale dei Gotan project con Diferente, mi prende un momento di emozione verso il terzo minuto tanto che mi scendono due lacrime. Quel remix di malinconia, nostalgia, tristezza felicità si insinua nella pelle. Saudade, che ti prende e ti sorprende quando meno te lo aspetti. Camminando in un lungomare, in un tramonto o in un viaggio, magari anche semplicemente sotto casa. E allora ripensi al tempo che passa criminale, ai ricordi che svaniscono, a dove sei, la bellezza diventa un tutt’uno che ti obbliga a spendere bene il tempo, a non perdere un attimo della vita.

In autobus c’è una lieve musica arabeggiante. Il paesaggio non cambia, scivoliamo leggeri verso Sud. Ogni tanto si vede il mare e piccoli paesini. La prima sosta è Puerto Real, la stazione è una fermata davanti a un baretto di nome Nakalera. C’è uno spazzino con un gilet giallo che taglia una tortilla di patate con una birra in lattina rossa e tre uomini che si contendono una partita a carte con una bottiglia, serviti da una donna con pantaloni cachi. Non ho capito bene se qualcuno scenda o salga, riprendiamo la strada e siamo due passi da una grossa laguna e in fondo industrie e gru mostruose. E’ Cadice, non posso dimenticare mai il suo profilo. Eppure dietro quella civiltà industriale e allarmante, quasi fosse una novella Indastria che fuoriesce dalla laguna, si nasconde una città fantastica.
Cambio la playlist e punto sul NeoTango dove c’è un pezzo di un Bajofondo. Gli associo ai Gotan Project ma sono una formazione musicale di musicisti argentini e uruguagi. Si definiscono “collettivo di compositori, cantanti ed artisti”. Anche loro fanno questo delizioso elettrotango con quella carezza malinconica. Una loro canzone, Pa’ Bailar, diventa la colonna sonora per decine di chilometri. Hai presente quando un pezzo ti entra nella testa? Spensierata e divertente, un po’ scanzonata con questo lead strano che penetra le orecchie. 

Presa la A48 ci dirigiamo verso Chiclana de la Frontera, allontanandoci di nuovo dallo specchio d’acqua. A San Fernando la poesia viene annientata tra centri commerciali e stabilimenti, distributori e supermercati troppo grandi, cartelloni pubblicitari e concessionarie d’auto. Prendiamo direzione per Algesiras e Malaga, per tornare a costeggiare l’oceano che tra poco sarà Mar Mediterraneo.Paesi della Spagna

A Chiclana de la frontera scendono una decina di persone. Non so perché ma le conto. C’è una donna con un abito nero che ha un grosso fagotto e si fa aiutare da un giovane e un ragazzo che sale, mostra una tessera, ma viene rifiutato dall’autista. Così va via senza nessuna discussione. Vicino alla fermata, c’è un parchetto con bimbi troppo grandi che si arrapicano in scivoli e altalene, una donna che tiene un quaderno e studia con la figlia che ripete qualcosa guardando in alto, come a chiedere al cielo i suggerimenti. Ridono, insieme. Forse starà recitando una poesia? Un’altra donna ha un carrello della spesa che sembra un trolley gigante che spinge con estrema lentezza fermandosi ad asciugare il volto. Attorno è un insieme di piccole palazzine che compongono un quartiere popolare fatto di spazi ampi e zone dove incontrarsi e passare le serate. La tipica architettura urbanistica delle città spagnole che vuol dare occasioni di socializzazione alle persone.

Usciamo dal paesino e il paesaggio è sempre più arso dal sole come la destinazione diventa Sud. Se non sapessi di essere in Spagna potrei dire il Campidano in Sardegna, stessi colori, stesse visioni. Inizio a litigare con il cellulare che è appeso alla presa USB sopra il sedile. Cade più volte ma per fortuna non si fa nulla. La mente brucia di pensieri disordinati più dei geometrici campi, ognuno con le sue casette bianche, le finestre azzurre, capaci di resistere al sole di qualsiasi stagione. La scritta Burger King mi riporta al mondo moderno, nonostante un baretto dimenticato da Dio con una scritta azzurra su sfondo bianco La Vega e la sua offerta: si vedono miele, panini, spremute e colazioni. Non capisco l’associazione dei prodotti ma son certo che quel cliente solitario con un capello nero abbia trovato la sua birra giusta.

Tutto è poesia finché non ti imbatti nelle zone industriali fuori dai paesi, fatti di capannoni e di fabbriche, di costruzioni finite o a metà, residence perfetti che aspettano frotte di rumorosi turisti con annessi campi di Padel. Allora le forme bianche delle belle casette di campagna o che si affacciano sul mare diventano corpi senz’anima. Certo, l’economia, il lavoro, la modernità. Tutto questo fa parte del mondo che viviamo. Ma la poesia è altra cosa.

  “Conil, Conil!” urla l’autista, “dieci minuti per andare al bar o in bagno”. Scendono in tanti, non so se per andare via o rilassarsi. Due ore e mezzo di viaggio non son poche! La stazione di Conil è un grande capannone con quattro posti pullman, un baretto e quattro panchine. Un ragazzo sta aspettando qualcuno. Controlla e ricontrolla il cellulare e si guarda attorno: è  una ragazza. Quando si vedono l’abbraccio è infinito, dura troppo per essere un semplice ritorno. Due ragazze si raccontano segreti e storie con ampie nuvole di fumo davanti, inginocchiate in un blocco di marmo e un pacco di patatine da sgranocchiare. Due donne, non più giovanissime, sgranchiscono le gambe con movimenti circolatori coordinati. 

Quando ripartiamo ritroviamo ancora una distesa di campi stavolta animata dal moto circolatori delle pale eoliche. Perdo il conto di quante ce ne siano e quando la strada si fa una lingua d’asfalto lunghissima, lo spettacolo di questi marchingegni meccanici diventa  allarmante. Un gruppo di mucche prendono il sole chiedendosi il motivo per cui l’uomo violenti così il paesaggio. Anche qui è la civiltà che chiama e guai a discutere su questi modelli di sviluppo, potresti essere additato di arretratezza e anticonformismo radicalchic.

Finalmente mare, una lingua di sabbia infinita e tanti kite surf. Ci avviciniamo a Tarifa. Un’auto fa un sorpasso al limite del codice (penale) tanto che l’autista urla un violento “coglione!”. Qualche minuto in più e in meno e sarebbe stato uno scontro frontale, e non credo con conseguenze leggere. Ci pensate a quanto la vita sia un insieme di centimetri e di minuti? Spesso per pochissimo tutto può cambiare. Si chiamano coincidenze, sono quelle del destino. Essere nel posto giusto, al momento giusto. E magari vederne concretizzate altre: un incontro casuale figlio di un ritardo, una persona conosciuta incrociata in una metropoli, un volo perso che ti salva la vita. Oppure soccombere per quel caso del destino. 

La sfilata di colorati negozi per surfisti con scritte e bandiere diverse, prima ancora di uno sguardo all’orologio, mi dice che siamo arrivati. Finalmente! Tarifa, la stazione è un box, troppo piccolo per essere vero. Il sole colpisce ancora ma un vento fresco schiaffeggia la faccia. I ricordi affiorano, quanto tempo fa son passato? Avevo scritto un altro post! Una donna che viaggiava con me si avvicina: “Sei sardo? Si sente!”. Ha ascoltato una mia chiamata con mio fratello. Avevo fatto di tutto per non disturbare gli altri. Non ci son riuscito.