La gente era talmente impaurita che non usciva più di casa, nonostante non ci fosse stato un decreto che lo imponesse.
Coprifuoco, lockdown, mascherine, distanziamento, terapie intensive, erano le parole oramai entrate nel lessico collettivo.
Non ci si scambiavano più sguardi e sorrisi che potevano essere letti come tentativi di fratellanza e condivisione. Venne vietato quasiasi divertimento, incontro, momento di svago. Avrebbe urtato la guerra in atto.
In Tv la nuova sacerdotessa D’Urso proponeva servizi improntati sull’educazione pubblica e sul linciaggio mediatico attraverso elicotteri gentilmente prestati dalle forze dell’ordine, i tribunali pubblici erano condotti da Selvaggia Lucarelli, il dottor Burioni parlava a reti unificate e ogni 3 minuti uno spot aggiornava il dato degli arrestati e dei sanzionati.
L’esercito della salute, composto da biechi impiegati del terrore, pensionati professionalizzati dall’osservazione dei cantieri, giovani squadristi neolaureati e saccenti in servizio permanente, girava mattina e sera per le città segnalando prontamente i trasgressori cominciando dalle categorie più pericolose: i giovani, gli artisti, la gente della notte e chiunque su facebook avesse anche lontanamente messo in dubbio che tutto era giusto e sacrosanto.
L’altra sera fucilarono uno, reo di non portare correttamente la mascherina mentre camminava solingo al Terrapieno. “Infame, untore, nemico del popolo, negazionista!” Gli urlarono e giù colpi d’arma da fuoco. I suoi poveri resti furono esposti in piazza d’Armi e poi portati al Bastione, come monito ai trasgressori, per lo più giovini, e nella foto i like raggiunsero più di milleduecento unità.
Plausi delle autorità, che vedevano realizzare un sogno. Un popolo incapace di porsi qualsiasi ragionevole dubbio e di poter esercitare la minima libertà di pensiero.