Un volo perfetto, Alitalia Roma-Belgrado, i posti condivisi con due ragazzi serbi che non smettevano di ridere e far casino ma mi hanno offerto di tutto patatine, biscotti, cioccolatini e si offendevano quando non accettavo. Ed io ho fatto da traduttore perfetto con la hostess. Spiaccicavano inglese ed io pure, ovviamente come sempre stavo a fare il buffone. Come è facile passare un volo meno noioso del solito e condividere qualcosa con sconosciuti?
Ritiro il bagaglio, controllo passaporti, cambio un po’ di euro in dinari e mi appresto finalmente ad andare in città! Nulla da dichiarare se non la mia stupida allegria e curiosità da viaggio in un posto nuovo.
Prendo l’airbus, costa 2€, 245 dinari, vado tranquillo e come previsto evito il taxi e mi godo la città. In bus siamo in otto: io, due classici ragazzi slavi, vestito, baffi e stazza, due donne apparentemente americane, un ragazzo capelli lunghi e barba che sta sull’angolo in fondo a guardare il mondo che corre. Un classico nerd da Silicon Valley, faccia da bamboccione, occhiali, panza e tshirt del campus. Orrenda musica pop serba ci accompagna in questo arrivo. Il pullman però è pulito e ordinato, roba da far invidia a noi occidentali italiani. L’autista ad ogni fermata grida qualcosa, ovviamente il luogo di riferimento. L’inglese viene parlato poco ma comunque compreso.
Controllo la cartina e guardo la destinazione. Siamo ancora lontani.
Palazzoni senz’anima si aprono nei quartieri periferici ma da contraltare tanto verde, piste ciclabili, playground colorati di giovani che cercano di mettere la palla nei canestri, spazi e campi di calcetto. Però questi orrendi mostri alti anche dieci piani violentano tutto.
Scendo subito dopo il lunghissimo ponte sul fiume Sava. Ho due chilometri di camminata fino all’albergo ma è un mio classico: prendere da subito confidenza con una nuova città e girarmela a piedi anche se con i bagagli. Il primo impatto mi riporta subito alla realtà dura dei giorni nostri. Un giardinetto di fronte al deposito dei bus dove ci sono persone accampati e tende di fortuna. Pochi secondi e capisco che sono profughi, una tenda della croce rossa e una fila di persone, giovani, ad attendere un pasto servito in una casetta di legno. Anche qui il dolore non manca.
La camminata vira verso il mio alloggio, con una bella salita e il sole che pian piano di ritira dietro palazzi e case creando interessanti effetti. Tempo di riordinare le cose e sono già in giro a farmi una birra scura in un bar all’incrocio, poi una cena con piatti tradizionali annaffiata da vino locale e una grappa fruttifera. Mi riscaldo anche perchè fuori piove e fa freddo, molto più di quanto pensassi. Quasi mezzanotte e si torna in albergo, ricchi di pensieri e del primo abbraccio della capitale serba.
Cosa vuol dire vivere in una città che fino a pochi anni fa (esattamente a fine anni 90) era teatro di guerra ed eccidi?
Me lo chiedo spesso quando visito questi posti e non è un caso che li scelga.
Qui c’è stata una delle Guerre più cruente degli ultimi tempi, un odio difficile da spiegare razionalmente, un conflitto che infuocava una regione, attraversava popoli, etnie e religioni, l’ultima guerra in Europa e l’unica nel dopoguerra.
Qui Dio aveva smesso di esistere, violentato e offeso dagli uomini che dicevano di amarlo.
Eppure tutto è ricominciato, faticosamente. Quello che forse paradossalmente è mancato a noi. Soffrire per rinascere.