Posts by Tixi

Da Siviglia in autobus verso Sud, destinazione Tarifa

Da Siviglia in autobus destinazione Tarifa ci vogliono ben tre ore. Dovrei farcela. Poi ci sono i fuori programma. L’aereo da Cagliari tarda mezz’ora. Problemi di autorizzazioni al decollo, spiega il comandante con un forte accento inglese.

Prima di raggiungere la aiuola di sosta qualcuno si alza e viene rimproverato al microfono da una hostess. Stesso rimprovero per un gruppo di turisti che sosta in pista in attesa forse di altri compagni viaggiatori. La grande scritta SEVILLA e un sole secco e deciso mi abbracciano quando arrivo nel sud della Spagna. 

La prima cosa quando arrivo in un altro paese è allontanarmi dai connazionali: sì, capisco che forse per alcuni sembrerà strano, ma non voglio più sentire una parola di italiano e abbandonarmi al luogo.

Il tempo è poco, ho il bus alle 14 in punto, meno di un’ora per andare in stazione, una follia se dovessi utilizzare il bus che collega l’aerostazione con il centro città. Manovro con il cellulare: la scelta è tra Cabify, che non ha mai usato, e Uber. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste. Venti euro per la stazione Plaza Das Armas. Il budget va subito a farsi benedire, ma non ho altre scelte. Perderei il biglietto del bus e non so.

Il mio autista si chiama Pedro Jesus e arriva con una corolla nera. Lo seguo impaziente dall’applicazione. Le indicazioni dicono di andare a sinistra, e trovare il parcheggio. In realtà lui mi aspetta al parcheggio davanti. Per fortuna scrive. Lo ritrovo nella selva di auto che aspettano altri clienti. Forse Uber non può avvicinarsi per un qualche patto con i tassisti. Controllo le targhe, eccola!

“Nìcola!”, mi grida qualcuno. Sbuca da lontano l’autista con un sorriso e mi aiuta subito per lo zaino. Viaggio leggero, senza impedimenti, da un po’ di tempo. Lo zaino è l’essenziale e viaggio dopo viaggio ti misuri sulla ricerca del minor peso. Ad ogni viaggio posso ancora togliere qualcosa!

Siviglia è come me la ricordo. Bianca, sontuosa, soleggiata. La macchina costeggia il Casco Antigo, mancano dieci minuti alla stazione e per puro scrupolo riguardo il biglietto del bus. Sai quelle volte che vuoi essere sicurissimo di non sbagliare? E infatti, ecco l’errore: non parto da Plaza das Armas, la stazione grande, il terminal di città, ma da Prado San Sebastian! E dov’è?  Quasi mi vergogno di dirlo al tassista, ma poi trovo coraggio per dire che ho sbagliato, in un mezzo italiano, spagnolo e inglese figlio della fretta e della paura. Lui mi capisce e non so che accada in questi momenti, specie con Uber e con una prenotazione. 

Siviglia ha una tradizione di stazioni sbagliate con me molto interessante: tre anni fa per poco non perdevo il treno sbagliando la stazione. Là il tassista fece davvero miracoli violando almeno una decina di articoli del codice della strada e facendomi salire sul treno cinque minuti prima. O forse il tempo si fermò per me! 

Pedro Jesus mi chiede di ricambiare la prenotazione dall’applicazione, spenderò 2 euro in più. La stazione sembrava più vicina ma è quasi sul fiume Stura. Seguo il percorso sul cellulare, ansioso: arriverò otto minuti prima della partenza. Ne mancano diciotto, ma non si sa come a un certo punto Google Map si aggiorna e diventano cinque. Sospiro di sollievo. Tutto quadra! Un colpo fortunato.  

La stazione di San Sebastian, incastrata in un labirinto di strade, è piccola. Partono e arrivano i bus da tutte le province dell’Andalusia – Cadice, Cordoba, Jaen, Almeria, Malaga e Granada – e dalle principali cittá spagnole. Che bellissima invenzione è Uber e per fortuna in Spagna ancora resiste.Stazione di Prado San Sebastian, Siviglia

I bus in Spagna collegano tutta la penisola con un servizio davvero efficiente, nulla a che vedere con le sgangherate mobilità di casa nostra. Vengono puliti anche durante i tragitti, hanno connessione wifi – non sempre efficiente, dico il vero! – e son comodissimi. I tempi non son di certo quelli del treno, che comunque non vi fa arrivare ovunque in Spagna, ci sono ampie zone dove di rotaie non c’è nemmeno l’ombra, ma c’è la bellezza di una ulteriore lentezza, di vedere i paesi con un occhio più spensierato e senza spendere troppo. Mezza Spagna l’ho girata così!
Chiedo a un autista della compagnia Omes vicino al bus con la scritta Algeciras se passi anche per Tarifa. Mi dice che non è il suo mezzo e poi aggiunge “unos nueve!” indicandomi poi la piattaforma 19. Il bus non c’è ancora. Ho tempo per comprare una scorta d’acqua per riempire la borraccia e andare in una toilette dal sapore franchista. 

La stazione ha colori gialli e bianco, una serie di panchine al centro e una ventina di piazzuole di sosta. Alla partenza c’è una famiglia araba, una coppa di tedeschi, e ancora un signore che legge un giornale da cui non si stacca per buona parte del tragitto e altre donne che viaggiano da sole (una di queste scoprirò essere pure sarda!). Altri arrivano un attimo prima della partenza, ottima tempistica! Io non ce la farei!

L’autista controlla la mia prenotazione online, mi guarda e mi dà l’ok per salire. Prima di partire e salire urla in stazione “Algeciras” come ultima chiamata. Una signora si avvicina e cantilena che prenderà il prossimo. L’autista le risponde di fare come vuole e la salute prima di chiudere la portina con lo sbuffo.

Usciti dalla città affrontiamo chilometri e chilometri di campi e terre seminate. Ci sono campi di girasole, canna da zucchero, fichi e file di alberi lontani. Amo i tempi lunghi dei viaggi, mi fanno fare ordine nella testa. Mi chiedo sempre se debba lavorare, scrivere o semplicemente godermi il paesaggio attorno. Nel volo aereo ho rimesso ordine agli impegni di questo periodo, ho pensato, ho finito un libro da leggere, ho dato senso ad alcune cose che non si smuovevano. E anche ora che sono in pullman, amo quella leggerezza che mi permette di stare così, solo con i miei pensieri, senza nessuna altra distrazione. Non devo far altro che aspettare l’arrivo. Saranno ben tre ore, c’è una persona che guida per me, un mezzo che dolcemente scivola su una strada, nessuno che mi aspetti e nessun appuntamento in vista con lo stress del dovermi spostare in auto. 

Ripenso alle uscite ogni giorno, al traffico che da quando ho vissuto a Milano odio sempre di più – quello di Cagliari è roba da dilettanti, ammettiamolo – allo stress di dover conquistare un posto, di dover stare attenti agli inganni della circolazione, alla corsa senza fine degli altri. La macchina è uno dei fattori di maggior stress, insieme ai social e a whatsapp!

Da tanti anni ho provato a mettere una marcia più bassa. Sono consapevole che non sia possibile più correre. Mi godo il viaggio come impegno di lentezza e consapevolezza, come esercizio di gioia.  In cuffia arriva un giro di note finale dei Gotan project con Diferente, mi prende un momento di emozione verso il terzo minuto tanto che mi scendono due lacrime. Quel remix di malinconia, nostalgia, tristezza felicità si insinua nella pelle. Saudade, che ti prende e ti sorprende quando meno te lo aspetti. Camminando in un lungomare, in un tramonto o in un viaggio, magari anche semplicemente sotto casa. E allora ripensi al tempo che passa criminale, ai ricordi che svaniscono, a dove sei, la bellezza diventa un tutt’uno che ti obbliga a spendere bene il tempo, a non perdere un attimo della vita.

In autobus c’è una lieve musica arabeggiante. Il paesaggio non cambia, scivoliamo leggeri verso Sud. Ogni tanto si vede il mare e piccoli paesini. La prima sosta è Puerto Real, la stazione è una fermata davanti a un baretto di nome Nakalera. C’è uno spazzino con un gilet giallo che taglia una tortilla di patate con una birra in lattina rossa e tre uomini che si contendono una partita a carte con una bottiglia, serviti da una donna con pantaloni cachi. Non ho capito bene se qualcuno scenda o salga, riprendiamo la strada e siamo due passi da una grossa laguna e in fondo industrie e gru mostruose. E’ Cadice, non posso dimenticare mai il suo profilo. Eppure dietro quella civiltà industriale e allarmante, quasi fosse una novella Indastria che fuoriesce dalla laguna, si nasconde una città fantastica.
Cambio la playlist e punto sul NeoTango dove c’è un pezzo di un Bajofondo. Gli associo ai Gotan Project ma sono una formazione musicale di musicisti argentini e uruguagi. Si definiscono “collettivo di compositori, cantanti ed artisti”. Anche loro fanno questo delizioso elettrotango con quella carezza malinconica. Una loro canzone, Pa’ Bailar, diventa la colonna sonora per decine di chilometri. Hai presente quando un pezzo ti entra nella testa? Spensierata e divertente, un po’ scanzonata con questo lead strano che penetra le orecchie. 

Presa la A48 ci dirigiamo verso Chiclana de la Frontera, allontanandoci di nuovo dallo specchio d’acqua. A San Fernando la poesia viene annientata tra centri commerciali e stabilimenti, distributori e supermercati troppo grandi, cartelloni pubblicitari e concessionarie d’auto. Prendiamo direzione per Algesiras e Malaga, per tornare a costeggiare l’oceano che tra poco sarà Mar Mediterraneo.Paesi della Spagna

A Chiclana de la frontera scendono una decina di persone. Non so perché ma le conto. C’è una donna con un abito nero che ha un grosso fagotto e si fa aiutare da un giovane e un ragazzo che sale, mostra una tessera, ma viene rifiutato dall’autista. Così va via senza nessuna discussione. Vicino alla fermata, c’è un parchetto con bimbi troppo grandi che si arrapicano in scivoli e altalene, una donna che tiene un quaderno e studia con la figlia che ripete qualcosa guardando in alto, come a chiedere al cielo i suggerimenti. Ridono, insieme. Forse starà recitando una poesia? Un’altra donna ha un carrello della spesa che sembra un trolley gigante che spinge con estrema lentezza fermandosi ad asciugare il volto. Attorno è un insieme di piccole palazzine che compongono un quartiere popolare fatto di spazi ampi e zone dove incontrarsi e passare le serate. La tipica architettura urbanistica delle città spagnole che vuol dare occasioni di socializzazione alle persone.

Usciamo dal paesino e il paesaggio è sempre più arso dal sole come la destinazione diventa Sud. Se non sapessi di essere in Spagna potrei dire il Campidano in Sardegna, stessi colori, stesse visioni. Inizio a litigare con il cellulare che è appeso alla presa USB sopra il sedile. Cade più volte ma per fortuna non si fa nulla. La mente brucia di pensieri disordinati più dei geometrici campi, ognuno con le sue casette bianche, le finestre azzurre, capaci di resistere al sole di qualsiasi stagione. La scritta Burger King mi riporta al mondo moderno, nonostante un baretto dimenticato da Dio con una scritta azzurra su sfondo bianco La Vega e la sua offerta: si vedono miele, panini, spremute e colazioni. Non capisco l’associazione dei prodotti ma son certo che quel cliente solitario con un capello nero abbia trovato la sua birra giusta.

Tutto è poesia finché non ti imbatti nelle zone industriali fuori dai paesi, fatti di capannoni e di fabbriche, di costruzioni finite o a metà, residence perfetti che aspettano frotte di rumorosi turisti con annessi campi di Padel. Allora le forme bianche delle belle casette di campagna o che si affacciano sul mare diventano corpi senz’anima. Certo, l’economia, il lavoro, la modernità. Tutto questo fa parte del mondo che viviamo. Ma la poesia è altra cosa.

  “Conil, Conil!” urla l’autista, “dieci minuti per andare al bar o in bagno”. Scendono in tanti, non so se per andare via o rilassarsi. Due ore e mezzo di viaggio non son poche! La stazione di Conil è un grande capannone con quattro posti pullman, un baretto e quattro panchine. Un ragazzo sta aspettando qualcuno. Controlla e ricontrolla il cellulare e si guarda attorno: è  una ragazza. Quando si vedono l’abbraccio è infinito, dura troppo per essere un semplice ritorno. Due ragazze si raccontano segreti e storie con ampie nuvole di fumo davanti, inginocchiate in un blocco di marmo e un pacco di patatine da sgranocchiare. Due donne, non più giovanissime, sgranchiscono le gambe con movimenti circolatori coordinati. 

Quando ripartiamo ritroviamo ancora una distesa di campi stavolta animata dal moto circolatori delle pale eoliche. Perdo il conto di quante ce ne siano e quando la strada si fa una lingua d’asfalto lunghissima, lo spettacolo di questi marchingegni meccanici diventa  allarmante. Un gruppo di mucche prendono il sole chiedendosi il motivo per cui l’uomo violenti così il paesaggio. Anche qui è la civiltà che chiama e guai a discutere su questi modelli di sviluppo, potresti essere additato di arretratezza e anticonformismo radicalchic.

Finalmente mare, una lingua di sabbia infinita e tanti kite surf. Ci avviciniamo a Tarifa. Un’auto fa un sorpasso al limite del codice (penale) tanto che l’autista urla un violento “coglione!”. Qualche minuto in più e in meno e sarebbe stato uno scontro frontale, e non credo con conseguenze leggere. Ci pensate a quanto la vita sia un insieme di centimetri e di minuti? Spesso per pochissimo tutto può cambiare. Si chiamano coincidenze, sono quelle del destino. Essere nel posto giusto, al momento giusto. E magari vederne concretizzate altre: un incontro casuale figlio di un ritardo, una persona conosciuta incrociata in una metropoli, un volo perso che ti salva la vita. Oppure soccombere per quel caso del destino. 

La sfilata di colorati negozi per surfisti con scritte e bandiere diverse, prima ancora di uno sguardo all’orologio, mi dice che siamo arrivati. Finalmente! Tarifa, la stazione è un box, troppo piccolo per essere vero. Il sole colpisce ancora ma un vento fresco schiaffeggia la faccia. I ricordi affiorano, quanto tempo fa son passato? Avevo scritto un altro post! Una donna che viaggiava con me si avvicina: “Sei sardo? Si sente!”. Ha ascoltato una mia chiamata con mio fratello. Avevo fatto di tutto per non disturbare gli altri. Non ci son riuscito.

DJset, Michela Murgia e tempo che passa

Finisco il mio djset e mi godo le esibizioni degli altri dj e poi ancora degli ospiti.
Carico di adrenalina post prestazione, senza un briciolo di stanchezza nonostante tre giorni in giro, vago per la spiaggia alla ricerca di un punto di gravità permanente. Saluto amiche e amici che non vedevo da anni, curioso tra i volti della gente dall’altra parte della barricata, dopo averli ammirati dalla consolle.
Ringrazio Simonluca, poi Steve Sax e poi Alex the voice. Parlo con Guax di musica dance e Sandrone Murru che mi racconta della sua second life spagnola. E ancora tanti altri amici di consolle che abbraccio, Max, Fabrizio, l’altro Max, Roby, Gianfry. Appare anche Gianni insieme a Vale, poi Garghy e Deca. Sono stanco e non riesco a elencarli tutti.
In consolle sale ora Cristian Marchi. Il sole sta per andar via. Devo a tanti suoi pezzi la mia fortuna da dj. Gli sono grato ancora.
Poi mi allontano, prendo una sedia lasciata vuota, mi metto a guardare il mare. La bandiera è rossa, niente bagni anche perché il vento si è rinfrescato. Poggio lo zaino pieno di roba del viaggio e finisco il mojito.
Ripenso alla vicenda di Michela Murgia che ho appreso con dolore dal giornale, e tutto d’un tratto la leggerezza della musica diventa introspezione e pensiero.
Come si vive sapendo di avere delle grosse possibilità di morire a breve? Quali i pensieri, quali le sensazioni? Ci avete mai pensato? Può accadere a tutti. Forse è per quello che oggi più di ieri e di domani conta godersi solo il presente senza progettare e perdere tempo. Tagliando e sistemando, minimizzando i lamenti e facendo leva sulla volontà personale.

Mi sto aggrappando alla musica e alla scrittura. Lo vedo come atto d’amore verso gli altri. Come l’amore che davvero Ale ha saputo dare fino a quel giorno terribile. Anche la sua parabola aiuta a capire quanto siamo di passaggio e quanto tutto si risolva anche in pochi attimi. A nulla vale prendersela per cose che non resteranno.
La meditazione mi ha insegnato approcci nuovi.
Forse non ho costruito nulla, e se lo pensate avete ragione, ma sono certo di aver provato sempre a vivere come mi piace. Di essermi sbattuto per avere sempre più coerenza tra parole e azioni. E di imparare ad allontanarmi da chi ama mettere i puntini sulle i.
Se siete nel dubbio, non fatevi mai incravattare da un’esistenza che non volete. Mai.

Le mie prossime serate da DJ!

Con la stagione primaverile ricominciano tanti appuntamenti che mi vedranno in consolle. E’ una settimana bellissima e ora ti scrivo qualche data:

Oggi, mercoledì 3 maggio, dalle ore 18,30, nella cornice del Palazzo Doglio a Cagliari, all’Osteria del Forte, cominciamo gli aperitivi del mercoledì. Proporrò una selezione di musica 70/80 rivisitata in chiave moderna.

Giovedì 4 maggio ti aspetto al Sunset del Bacan, dalle 19 circa, per un drink accompagnato dalla selezione musicale organic e melodic house che propongo anche ogni domenica. Il luogo, dove potrai ammirare un tramonto unico in città, è nel porto della Marina di Sant’Elmo, Calata dei Mercedari, a due passi dalla Basilica Bonaria.

Se sei a Milano, poi, ti aspetto con due appuntamenti sempre questo weekend (ebbene sì, ogni tanto viaggio!)

Venerdì 5 maggio nell’accogliente e amichevole Mantra (Quartiere Isola, Metro Garibaldi, Via Jacopo dal Verme 16) dall’aperitivo alla mezzanotte ho preparato una bella selezione house che ripercorrerà anche gli anni 90. Perché passare? E’ un locale che ti dà delle vibes assolutamente positive e rappresenta un perfetto connubio tra Oriente e Messico!
Sabato 6 maggio, per tutto il giorno, sempre a Milano, sarò al Playmore (Metro Moscova), un grande centro sportivo e culturale che si occupa di tantissimi progetti, legato anche alla Fondazione Milan. E’ il terzo anno in cui sono il DJ ufficiale, è un evento imperdibile di sport e musica, che terminerà con una grandissima festa.
Domenica 7 maggio cambiamo ancora luogo e prospettiva e torniamo in Sardegna, in riva al mare: sarò al Sunshine Rey di Costa Rei (Muravera) per una giornata speciale in ricordo dell’amico DJ Ale Massessi che ci ha lasciato un anno fa. Insieme a me tutti i colleghi e amici DJ che hanno conosciuto e collaborato con Ale ma anche alcuni ospiti importanti tra cui il DJ Cristian Marchi.

Chilometri di strada, una festa da Dj e Murakami

Torno a casa dopo due giorni in giro per la Sardegna e ho il tempo di recuperarmi la consolle e andare a una bella festa di facce sorridenti. Sì, di quelle dove il ballo vien da sè come normale rito collettivo e liturgico.
Quando rientro, più o meno le tre, c’e Norwegian Wood che a far compagnia alla mia stanchezza accumulata.
Prometto di leggermi le ultime cinquanta pagine e prendo un grande respiro. Mi tuffo!
La scrittura di Murakami riesce a tenerti vivo fino a tardi.

Norwegian wood

Norwegian wood è un romanzo profondo e introspettivo. Un lungo flashback che ripercorre l’adolescenza del protagonista, Toru Watanabe che vive a Tokyo in un collegio universitario.
È andato via di casa per ricominciare una nuova vita, lontana da un passato ingombrante. Nella nuova città fa la conoscenza di personaggi bizzarri che gli apriranno nuove possibilità.
La sessualità viene trattata in modo piuttosto esplicito, coerente al contesto giapponese.
Eros e Thanatos, Amore e Morte. Scontro continuo. La morte è il filo conduttore,
collega tutti i personaggi e impregna la trama di toni malinconici.
A soli 17 anni il suo migliore amico si è tolto la vita. Toru prende così consapevolezza della morte, una consapevolezza che lo accompagna e che diventa il modo con cui trova l’amore.
Attraverso due ragazze: l’innocente Naoko, la tenerezza e la rinuncia, e la vivace e irriverente Midori.

La musica di Norwegian Wood

Non sei ma solo nella lettura: c’è sempre musica, con la presenza soprattutto dei Beatles e la lentezza ritmica della scrittura, le descrizioni accurate di Murakami che fa osservare da vicino le vite di tutti i personaggi.

Le domande di Murakami

Alla fine non ci sono certezze ma altre domande. Bisogna cogliere il tempo e saper scegliere.
“Cerca di pensare che la vita è una scatola di biscotti. […] Hai presente quelle scatole di latta con i biscotti assortiti? Ci sono sempre quelli che ti piacciono e quelli che no. Quando cominci a prendere subito tutti quelli buoni, poi rimangono solo quelli che non ti piacciono. È quello che penso sempre io nei momenti di crisi. Meglio che mi tolgo questi cattivi di mezzo, poi tutto andrà bene. Perciò la vita è una scatola di biscotti.“

DJSET al Bacan, a Cagliari

La bella stagione prende forma e la musica torna
In attesa degli altri ritrovi estivi, ci vediamo la domenica allo splendido Bacan (Marina di Sant’Elmo, Cagliari) per il mio djset “seguendo il sole” dal pomeriggio al tramonto.

Ho scelto per voi le migliori sonorità funk, melodic e organic house per accompagnare l’aperitivo in uno degli scorci più belli di Cagliari e della Sardegna.

Ingresso libero, il locale è aperto e accessibile tutti i giorni.

https://www.bacancagliari.com

Intelligenza emotiva di Daniel Goleman

Ho appena finito di leggere il libro di Goleman. Finalmente, dico, perché la prima volta avevo abbandonato le pagine dopo qualche minuto!

L’ho trovato uno strumento potentissimo per capire molte cose che sentiamo e viviamo, quando parliamo di controllo sulle nostre emozioni.

La parola intelligenza emotiva racconta una possibilità che non sfruttiamo: coltivare al meglio questa abilità, che non ha nulla a che vedere con l’intelligenza che conosciamo, per gestire le nostre emozioni in modo consapevole.

Le emozioni son importanti perché riguardano la nostra vita quotidiana. Esserne consapevoli è un vantaggio per gestire le nostre piccole e grandi crisi e scelte quotidiane

Come ho sempre pensato, e in periodo pandemico qualcuno mi ha pure deriso, i sentimenti contano tanto quanto il pensiero razionale, a volte anche di più. I sentimenti sono indispensabili nei processi decisionali: ci orientano nella (giusta) direzione, dove poi la pura logica si dimostrerà utilissima. Nei casi in cui le decisioni della vita si fanno complesse, gli insegnamenti emozionali che la vita stessa ci ha impartito inviano segnali che restringono il campo della decisione, facilitandola. In pratica, è come se avessimo (anzi abbiamo) due menti distinte: una razionale di consapevolezza e riflessione, e una emozionale, impulsiva e a volte illogica, ma molto potente, che esce fuori quando proviamo dei sentimenti. A noi spetta equilibrarle, senza permettere che l’una violenti l’altra. Di pura razionalità non si vive. E neanche di sole emozioni. Ma ci troviamo (ci siamo trovati) poveri di mente emozionale, consapevolezza, controllo di sentimenti negativi. Incapaci di conservare il nostro ottimismo, di avere perseveranza ed empatia e soprattutto avere attenzione e cura degli altri. E il lockdown ha fatto emergere tutta la nostra brutale incapacità.

Un consiglio? Non perdetevelo!

L’organic house, il genere musicale e la mia strada da DJ

Ho passato il periodo del covid come tanti di voi con estrema difficoltà e disagio e la musica è stata una piccola ancora di salvezza.

Ho ascoltato tantissimi pezzi, ho perlustrato playlist, generi e ambienti nuovi, ho iniziato a mettere in discussione, più che in passato, tutte le mie sicurezze musicali.

Un percorso di svolta che cominciò già al Peek-a-boo nel 2014 quando proposi una playlist completamente nuova. Un funky melodico che poi venne riproposto nel 2017 e 2018 sposandosi perfettamente con il locale.

Il covid è stata un’epifania: da una parte il mondo si fermava, dall’altra qualcosa dentro di me si muoveva. Una sensibilità, la mia, che in questi anni è mutata per la musica e per il mestiere da DJ, ma principalmente per tutto quello che mi circonda. Ed è apparsa una parola che oggi, da quasi tre anni, connota i miei djset. Se la traduci vuol dire “casa organica” o “casa biologica”. Fa un po’ ridere. In realtà la chiave è ascoltarla bene, senza pregiudizi, per capire perché si chiami così: organic o melodic house.

Galeotto fu un fine settimana in Costa Smeralda quando la mia colonna sonora per l’intero viaggi fu la dj e Producer Nora En Pure. Da quel momento scattò la molla.

Galeotto fu (ri)avvicinarmi al pianoforte, stavolta non più ad orecchio come da piccolo, ma studiato con l’umiltà di chi ha troppo da imparare ma non vuole perdere più tempo (grazie maestro Luca Murgia).

Tutto è poi diventato il mio genere musicale di punta di questa mia vita artistica post Covid, che ha trovato anche una casa dove esprimerla, una geniale coincidenza: è iniziata la collaborazione con il Bacan, un bellissimo locale di Cagliari, in Sardegna. E questa coincidenza è diventata il djset del sunset, eventi chiamati dall’amico Marco nella comunicazione “seguendo il sole”. Perché la musica, per come l’abbiamo vissuta e pensata, deve accompagnare il dolce declinare del sole sui monti di Capoterra e dev’essere esperienza e sensazione che si sposa con il luogo e il tempo.

E poi c’è una filosofia che mi accompagna: fare qualcosa che faccia star bene gli altri. Che sia la scrittura o la musica. Che si collega con la mia necessità di riavvicinarmi allo studio da adulto della filosofia, alla pratica meditativa e alla scoperta di nuovi mondi, il Medio Oriente, l’Africa, l’Estremo Oriente, l’Asia. Terreni nuovi e fertili.

Così nei djset ho proposto un suono deep più morbido, etnico e sofisticato.

Un genere che trova la sua perfetta espressione d’estate e quando c’è ancora il sole, in riva al mare, contaminandosi e sposandosi con altri influssi, utilizzando percussioni e strumenti (tradizionali se possibile) in maniera mirata ed effetti morbidi e tenendo i bpm entro i 125.

La musica respira, la cassa, come il basso, non sono mai invasive.

E’ un genere che si balla, mi chiedono spesso? Dipende. Sicuramente trasporta. Contro la frenesia e lo sproloquio della musica moderna è una bella opportunità. Forse è figlia anche di questi tempi. Anzi, certamente. Combattiamo con lo stress e la preoccupazione, la paura di non farcela e un mondo diventato sempre più cinico e caotico.

L’organic house è un toccasana, il respiro profondo, la carezza rassicurante. Chissà che non diventi qualcosa di più di un genere per pochi.

Il deserto del Wadi Rum in Giordania!

Parto presto da Petra, la camminata di ieri mi ha tolto ogni velleità di uscita serale.

Il buffet del mattino in albergo è ricco, cerco di non farmi fregare dall’abbondanza e dalla scelta: uovo sodo, toast, un po’ di latte macchiato di caffè, pomodori e olive. Un mix dolce e salato senza senso.

Oggi andremo nel deserto guidando per la Strada dei Re, che attraverso colline e vallate senza anima viva e con pochissima vegetazione. La Strada congiunge Amman a Petra lungo un percorso di circa 300 chilometri ed è una delle strade più panoramiche da percorrere in Giordania in alternativa all’Autostrada del Deserto, più veloce ma meno scenografica.

Piccole case provano a sfidare la terra giocandosi la modesta quantità di acqua che la zona offre. “Le persone dovrebbero tornare alla terra” mi dice Amjad.

Immancabile è il check point della polizia – ne vediamo e incrociamo o davvero tanti – un sorriso e un Assalaamu alaykum (la pace sia su di te) e si passa. Il territorio è ben controllato, nessun timore. I turisti e i viaggiatori sono visti con rispetto assoluto.

Amjad ferma la macchina in un paesino e scende di corsa: dove sarà finito? Lo perdo di vista. Poi torna, correndo, sorridente e risale con due focacciozne olio e origano. A quel paese la mia dieta, mangiamo a metà mattinata! E questa focacciona è una bella botta. Tutto è concesso!

La prima pausa in un viaggio che durerà circa due ore e mezzo è in un bar con un vista strepitosa. Il cartello non lascia dubbi: Resthouse, the best View in the world. Le promesse, di fronte a un buffet di tabbouleh, humus, falafer, il pane pitta e il knafè, oltre a pomodori, olive, insalate varie, conquistato da un gruppo di tedeschi, sono mantenute. Un buon caffè turco e due foto e si riparte!

Ancora curve e prima di arrivare al deserto passiamo per la Piccola Petra nota anche    come Petra la Bianca o Siq al-Barid (Canyon Freddo). Anche qui c’è un pezzo di storia nabatea con diversi edifici scolpiti nelle pareti dei canyon di arenaria. 

È molto più piccola rispetto a Petra, un canyon di 350 metri che si percorro senza troppe difficoltà in una mezz’ora e che si conclude con l’immancabile baretto/bazar con il beduino che propone tè, caffè e incensi.

Anche qui risento l’atmosfera magica e surreale interrotta solamente dalla musica e dal canto di un simpatico anziano beduino e dal pianto di un bimbo subito consolato dai genitori.
Il deserto si avvicina. Lasciamo la macchina in una stazione di servizio e saliamo su una prima jeep. “Non vorrai mica salire dentro! Tu sei l’ospite speciale”. E io, un po’ perplesso, mi accomodo dietro. Sciarpa e occhiali. Al sole, al vento. La temperatura non è proprio primaverile ma quella corsa in jeep mi concilia col luogo. 

Grandi montagne si stagliano davanti e intervallano distese chilometriche di terra e sabbia. Una lunga striscia grigia prima di lasciare l’asfalto, costeggiando una piccola linea ferroviaria che è destinata al traffico merci e a qualche convoglio turistico! Effettivamente vedere il treno qui è una novità e penso subito al Treno di Tozeur di Battiatiana memoria.

Ammiro l’avvicinarsi del deserto e le sue braccia immense aprirci e diventare la nostra terra sotto i piedi. Rocce, sabbia, cammelli in lontananza, sassi, piccole piante secche, spazi che si perdono, cielo. 

Quando scendo dalla jeep comincio a connettere razionalmente che non sto in un posto qualunque: il deserto è un posto speciale. Il deserto è IL posto.

Mi accolgono subito al villaggio, il capo si presenta con un sorriso e una stretta di mano, ho tempo per sistemarmi nella tenda perché mi aspetta un’altra jeep che mi porterà in giro. Poi la tenda. Una stanza accogliente, addobbata di arazzi, con un letto comodo, delle coperte per la notte, un ventilatore e quando apro le tende davanti, il deserto a due passi e il cielo.

La posizione è davvero speciale, ringrazio gli amici del campo per questo regalo inatteso.

Quando usciamo di nuovo, il 4×4 entra nel ventre del grande Wadi Rum,  il più bel deserto del mondo, teatro anche delle avventure di Lawrence d’Arabia che visse qui tra il 1916 e il 1918 durante la grande rivolta araba e usato per ambientare molti film di fantascienza e avventura nello spazio.. Paesaggio lunare e marziano, con la terra rossa.

Grazie alla bellezza di questi paesaggi, il Wadi Rum è diventato un luogo famoso.  

Tocchiamo diversi punti, un canyon con alcune iscrizioni rupestri di Nabatei che lo hanno abitato, una duna altissima dove scommetto per 5 dinari di salire in 5 minuti – credo di aver rispettato la scommessa nonostante il fiatone e il cuore che batteva a mille- e ancora una specie di autogrill isolato. 

All’ingresso un ragazzo, in cambio di una piccola offerta, ti offre una tazza di tè con salvia e cardamomo in un bicchierino di vetro che gusti seduto in comodi divani circolari.  Intorno a me donne con il velo, anziano con abiti tradizionali, tutti sorridono, conversano e soprattutto mi ritrovo unico occidentale, tra gente del posto, seduta vicina che ti scruta in maniera curiosa e gentile. Quella cartolina di vita, così onesta e sincera, è un salto nel passato mi fa tornare indietro nel tempo, alla vita di paese della mia infanzia.  Amjad mi racconta che qui si fa una sosta per i tragitti e si trovano spesso pellegrini provenienti da altri paesi arabi.

Quando torniamo al campo ho un’ora di relax e poi un’altra uscita: la gita in cammello fino al tramonto!

Mi concedo qualche passo sul deserto, fuori dalla mia tenda: stupito dal silenzio e dall’idea di piccolezza rispetto a tutto quello che mi sta attorno. E’ una sensazione di connessione con l’universo che faccio fatica a sentire, abituato a rumori molesti e a quell’odioso sottofondo delle città. Ridete voi sapendo che faccio pure il DJ.

Come una carezza delicata il vento passa da una parte all’altra muovendo qualche cespuglio. Un rumore di aereo lontano e il movimento di qualche jeep poi nulla. Io e il deserto, soli.

I cammelli ci aspettano! Un tragitto lungo, senza raccontarvi la paura quando il tranquillo animale si solleva e scende, accompagnato da un beduino gentile che non sa una parola di inglese ma che mi rassicura prendendomi le mani e indicando dove devo tenermi. 

La camminata dura un’ora e lui, rilassato e pacifico, guida i due cammelli verso una duna da cui godermi il tramonto. Mentre cammina, con passo sicuro, con una invidiabile serenità, mi chiedo a cosa stia pensando, a come sia la sua vita. E mi dispiace un po’: mi prometto di non salire mai più su un cammello. La prima sensazione esperienziale ha dato spazio alla consapevolezza che non ci debbano essere persone o animali sfruttati mai in nessun modo. Lo so che noterete l’incoerenza del mio pensare rispetto a tante altre situazioni simili, ma questa è stato il pensiero mentre dondolavo!

Quando rientro le luci del giorno oramai andate via e il campo è una suggestione di luci e ombre. Il vento è salito e per restare fuori il fuoco acceso è un valido compagno di sopravvivenza. Gli uomini del villaggio tolgono dalla sabbia un gran pentolone fumante: è lo zarb. Questo piatto è servito solo qui al Wadi Rum. Si tratta di una pietanza a base di carne e verdure che viene cotta sotto la sabbia e ammorbidita con salse come lo yogurt e spezie piccanti.

La cena è in una grande sala di tappeti, narghilè e divani colorati con un ricchissimo buffet di piatti tipici, oltre a pane e verdure arabe. Tutto è lento e conviviale. Ci sediamo attorno, nessun tavolo per dare le spalle a qualcuno. Siamo io e altre tre turiste francesi. Ci scambiamo sorrisi e sguardi. Ho il mio taccuino davanti, scrivo ogni cosa che mi passi per la testa. Fuori  è buio e ci siamo siamo noi, ultimo baluardo di umanità. Ma chi sarà davvero il più forte dentro un deserto? Noi uomini o la natura?

Quando finiamo non sono neanche le otto e mezzo. Il vento è salito, ma Amjad e gli altri mi invitano ancora per un the davanti al fuoco. Come puoi aver freddo e sentirti solo e triste in un posto così? La stanchezza però c’è, lo ammetto. Mi rifugio nella mia tenda per leggere un libro finchè il battere della pioggia non viola quel silenzio religioso. Accolgo con gratitudine quel picchettare sulle fragili pareti e tutto quello che porta. Mi pizzico ancora nelle guance chiedendomi se sia tutto vero e io sia davvero qui, nel Wadi Rum.

Morfeo o chi per lui mi avvolge in un abbraccio finché i primi raggi del mattino non arrivano al viso. E’ l’alba. Il sole fa fatica a prendere il sopravvento nelle rocce. Ci riesce, stiracchiandosi. Mi godo ancora quel momento delicato, quel tempo lento, quel silenzio meraviglioso, come fossero un balsamo magico. Scrivo qualcosa, un gatto mi fa compagnìa per poi perdersi tra le rocce. La colazione è servita. Il campo si anima, gli zaini si preparano per la partenza. Le jeep tra poco arriveranno e tutto sarà un ricordo. Non è ancora il momento di andare. Quel silenzio del Wadi Rum è uno dei più grandi regali che abbia mai avuto!

Un giorno a Petra, con l’incredibile storia dei Nabatei

Quasi tre ore di auto mi aspettano da Amman a Petra. Lascio la grande capitale di primo mattino, nel traffico chiassoso del lunedì, e via, per un’autostrada che taglia in due la Giordania.

Si aprono scenari rocciosi e desertici. Piccoli villaggi, stazioni di carburante, bar improvvisati con insegne scritte a mano, uomini che ti invitano il caffè con un curioso coperchio e l’indicazione a fermarsi – all’inizio pensavo fosse solo per trovar parcheggino – officine che puliscono e cambiano gomme, persone sedute al bordo strada a guardare chi passa, distanze immense in cui spuntano spicchi di vita quotidiana, il volto puro della Giordania e del Medioriente, quello che più amo! Questa è una strada importante che conduce anche i pellegrini alla Mecca.

A metà tragitto, ci fermiamo in uno dei pochi autogrill che si trova nella zona di Karak. Amjad me lo suggerisce dicendo che qui c’è un buon caffè, un negozio per qualche ricordo e i bagni sono puliti. All’ingresso delle toilette – tra l’altro tutte col doccino! – è buona regola lasciare una piccola offerta.

Compro qualche souvenir e il keffiyeh, il copricapo tipico bianco e rosso, il suo colore in Giordania – che chiedo di sistemarmi a un ragazzo che lavora nel negozio. Mi spiega come funzioni e con lentezza lo dispone sulla mi testa arrotolandolo e sistemandolo bene. Che strano vedermi così, e anche sentirmi addosso un loro capo mi fa sentire ancora di più parte di questa comunità!

Il sorriso non manca mai e anche un caffè rigorosamente turco: ne farò incetta col suo gusto sabbioso e lungo che resta nel palato.

Quando lascio l’autostrada – non si paga pedaggio, l’asfalto è ottimo e ci sono vari controlli della polizia – le montagne si avvicinano. La salita comincia e dura almeno un’ora. Qualche godibilissima curva, qualche villaggio sperduto e la prima vista, da lontano, di Petra, che lascia senza fiato.

Arrivo a Petra!

Eccola, spettacolare! Come se fosse un mondo a sè, una creatura inserita in una scena già meravigliosa, tra ripide gole e montagne, in un luogo isolato e arido, tutto fatto di roccia e pietra (avrete tutti notato l’assonanza!). Un luogo che, basta pensarci, ha permesso che questa civiltà si preservasse ed è poi diventata, nel 1985, patrimonio mondiale dell’Unesco.

Vivere Petra è ben diverso dal guardarla su video o in foto. Superata la fila dei cancelli, mi tocca una prima camminata su uno sterrato aperto, che ancora non fa trapelare nulla se non alcune rocce erose e lavorate dal vento e dall’uomo.

Poi, superata qualche curva, inizia il Siq. Il nome arabo significa “la gola”, è un tragitto lungo uqai 2 chilometri, serpeggiando a destra e a sinistra, che si allarga e restringe. Un anfratto con pareti altissime che, a tratti, impediscono quasi di vedere il cielo!

Un po’ di storia con i Nabatei

Qui passavano le carovane dei mercanti che hanno lasciato iscrizioni, rilievi, piccoli buchi scavati dove venivano posti i simulacri delle divinità e al pavimento le offerte. Sui lati scorrono dei canali per portare l’acqua nel centro della città. E allora non posso che scoprire, grazie anche al racconto di Amjad, la meravigliosa storia dei Nabatei, un popolo di origine araba e nomade che non avevo mai sentito nominare a scuola. Al secondo secolo a.C. erano ormai sedentari e organizzati in una monarchia florida.

La loro capitale divenne Petra e i loro territori si estendevano in una regione a Sud del Mar Morto ed a Est della Giudea. Petra divenne una città abitata da circa 30mila persone e importantissima a livello commerciale. I Nabatei erano dei mercanti e aprendo la cartina geografica – ogni tanto fa bene capire dove sono! – scopro che la posizione del sito non è casuale: è tra Oriente e Occidente e permette di collegare i mercati dell’Egitto con quelli della Siria. Una posizione difficile da attaccare e facile da controllare da chi la abita. C’erano da difendere tesori come l’incenso, la mirra, le spezie, prodotti richiesti e costosi. C’era da difendere l’incolumità di quella città.

Amjad mi racconta che c’è ancora tanto da sapere e da scoprire su Petra ma il fascino e l’ammirazione per i prodigi e le architetture scavate nella pietra arenaria di colore rosa sono già tanti.

Non vi ho raccontato che questi anfratti sono anche e soprattutto abitazioni e tombe alte fino a 30 metri. Anche qui c’era la differenza di caste: le migliori per dimensione e cura dei particolari erano di chi rivestiva ruoli più importanti, le altre dei cittadini semplici.

Petra riuscì così a prosperare grazie all’abilità dei suoi abitanti, diventò una delle città più ricche al mondo durante l’antichità almeno fino all’arrivo di Roma che ne decretò il controllo.

Eppure i Nabatei non si diedero per vinti e ripresero le redini. Con la politica condotta da un sovrano di nome Areta IV, arrivano a controllare anche Damasco, in Siria, e una regione parte dell’odierno Libano. E solo più avanti tra il 9 a.C. e il 40 d.C. riuscirono a svincolarsi dal controllo di Roma e ottenere che il loro regno venisse riconosciuto.

Il tesoro, la meraviglia!

In questo periodo, venne scavata nella roccia la tomba monumentale che ancora oggi tutti associano a Petra, il El Khasneh (Il tesoro). Forse la ricordate per un film che si chiama Indiana Jones? Ebbene sì, è quella, è l’architettura di Petra più fotografata, ha circa 2000 anni e oggi è considerata una delle opere più note al mondo. Alta 40 metri e larga circa 25, la leggenda narra nascondesse – magari anche oggi? – un immenso tesoro mai trovato.

Petra conobbe poi il declino e il controllo romano con Traiano: i segni si vedono ancora. Il regno dei Nabatei divenne provincia, la capitale venne spostata a Bosra e i romani costruirono edifici, anche di notevole pregio artistico, infrastrutture e strade.

Una camminata faticosa ma bellissima

Tornando ai giorni nostri, il sito è esteso con un po’ di fatica basta una giornata (ma se non siete allenati lasciate proprio perdere e prendetevi più tempo).

Ci vogliono buone scarpe e forza d’animo sia per le distanze sia perchè ci sono impervie salite e scale, come quella per arrivare al Monastero una colossale facciata di quasi 50 metri di altezze larghezza. C’è anche un bar proprio di fronte, ma non mi fermo subito: scopro un bel panorama con pochi minuti di cammino. Uno scenario che domina sulla Terra Santa, incuriosito dal cartello “Vista alla fine del mondo!”, che, per la verità, mi aveva fatto pensare a un pacco. E invece…!

Ma Petra è anche altro. Passo davanti a tanti siti monumentali, il Tempio, il Teatro, la Tomba del Palazzo e tanto altro ancora. Incrocio curiosi bazar che diventano gallerie coperte, bancarelle che vendono tappeti, collane, incensi, souvenir, teli, statuette, bar e piccoli rifugi per rifocillarvi con un panino kebab, un caffè, un tè e una bottiglia d’acqua ma anche qualche beduino che dall’alto mi osserva curioso mentre faccio una foto. Sono ammaliato dai profumi di incenso e dal calore di piccoli bracieri dove i mercanti si riscaldano e tante piccole situazioni belle e inattese, dialoghi, saluti, sorrisi.

I beduini chiedo una piccola offerta se volete un passaggio in asino o con un piccolo mezzo elettrico. Se vi fa piacere, se ne avete bisogno, accettate contrattando (3-5 dinari) o dando una piccola offerta, altrimenti un sorriso e un no, thanks e andate per la vostra strada.

Io son sempre in difficoltà a contrattare ma superata la paura è tutto divertente e normale! Tanti beduini, mi racconta Amjad, si guadagnano la giornata così e il covid, che ha chiuso la Giordania al turismo, ha ridotto in povertà tanti, non dimentichiamolo mai!

Petra affascina e anche se dovrete condividerla con turisti non troppo educati e rumorosi (indovinate di quale nazionalità soprattutto?), vale la pena! Ci son tante leggende e curiosità in questo mondo così lontano e pieno di mistero. Una storia che non conoscevo. Una storia in movimento visto che il sito nasconde altri tesori che emergeranno dagli scavi.

Note da viaggiatore

  • Ci son tanti alberghi dove soggiornare a Petra. Una notte è necessaria per godervi davvero l’esperienza.
  • Potete godervi la suggestione di Petra illuminata con Petra by night, un evento alcuni giorni la settimana che prevede l’apertura serale e notturna
  • Ricordatevi che per entrare a Petra ci vuole il Jordan Pass un pacchetto turistico pensato ad hoc per i visitatori della Giordania che vi facilita l’ingresso nei siti (ecco il sito ufficiale https://www.jordanpass.jo)