Posts in viaggi

Carloforte, l’anima profonda

Ho finito di correre. Ho fatto il giro della Via del Sale, che stamattina sembrava più la via del sole. Sono davanti agli imbarchi. Faccio una foto inutile. Cappuccino e cornetto al Bar alla Fontana. La lenta dinamica di eventi di Carloforte mi affascina. Venticello carico di nostalgia e futuro. Tortore in loop. Colori di case e palazzine e che poi si fermano nell’azzurro cielo.
Mi siedo su una panchina. Mi affascina vedere i traghetti andare e venire. Il viaggio in tutte le sue facce. Ormeggi e rumori, fumo di comignoli e bandiere sventolanti sui pennoni. Donne che tornano con le buste dalle spesa. Due carabinieri scherzano con degli anziani su Napoli e juve. Un uomo zoppo attraversa la strada e si appoggia sul primo motorino dall’altra parte come fosse un porto sicuro. Un tipo sconosciuto mi saluta. Ha sicuramente sbagliato ma io rispondo cone se nulla fosse.
Mi perdo nelle stradine che salgono, il silenzio comincia a farla da padrone. Quel movimento del porto ora diventa silenzio e rumori indistinguibili, ape che sfrecciano in salita, vetrine che si lavano. Due vecchine scendono con attenzione le scale sotto l’arco. Profumo di sapone di Marsiglia in panni stesi a bordo strada. Tichettino di contatori.
E ancora case vecchie e nuove e intrecci di suoni: rotelle, starnuti, chiacchierate, picconi. Un bar con un biliardo che profuma di partite infinite e Pink floyd in diffusione. Insegne di negozi vecchi ma piene di amore. Due donne parlano davanti all’ambulatorio. Mostrano le spese per i farmaci. Ancora colori e bici e panni stesi.
E io qui, curioso, che provo a registrare ogni gesto anche minimo delle persone, a viaggiare con l’idea di cogliere il senso del mondo.
Adoro la semplicità dei borghi. Ritrovo la leggerezza del Mediterraneo con la sua gente e i suoi riti semplici.

Nomadismo digitale all’epoca del Covid

Il “gioco” – si fa per dire – cominciò in Spagna tanti anni fa, almeno una decina. Avevo apprna finito il Cammino di Santiago. Portarsi il computer, avere una connessione e unire lavoro a viaggio. Scenari che cambiano, natura, mare, campagna.
Ricordo ancora quando un mio committente mi chiamò e gli risposi che fossi a Beirut. Per fortuna era un viaggiatore e come me capiva che le distanze non toglievano la qualità e la serietà. Anzi, il viaggio arricchiva e rendeva la mente più dinamica. E per chi lavora nel digital è una soluzione pratica.
Le derisioni non mancarono. I clienti guardarono storto, dicevano che non fosse rispettoso viaggiare e seguirli a distanza. Qualcuno continuò a dire che viaggiare e stare in giro fosse sinonimo di poca serietà e affidabilità. Quanta fatica dover far passare anche questo messaggio e sfondare l’ennesimo muro di mentalità chiusa e provinciale, capace anche di farti perdere occasioni per pura invidia.
Io sorrido e vado sempre avanti, consapevole che il futuro sia già adesso.
2021, il nomadismo digitale continua.

Due giorni ad Alghero, tra ricordi e futuro

“Voglio andare ad Alghero in compagnia di uno straniero” cantava Giuni Russo, la bella voce della musica leggera italiana, purtroppo scomparsa, che nella cittadina catalana aveva posato le sue radici.
Quanto erano belli quei tempi per noi nati a metà anni Settanta?
Ricordi da cassettina musicale, da estati che iniziavano a giugno e finivano a settembre, musica nei radioni, stabilimenti balneari e abbronzature infinite.
Per i sardi l’estate era solo il mare, senza eccezioni. Ed il mare, quello vero, era solo Sardegna.
Alghero, anni ottanta. Fotografia Kodak. La gioia, la spensieratezza del tempo del pentapartito e dell’Italia socialista e democristiana ricca e gaudente, del contraltare della Costa Smeralda. Alghero meno patinata e più popolare, ma pur sempre uno dei (pochi) avamposti sardi del turismo organizzato.
Alghero è stata anche i primi capodanni importanti di fine millennio, i concertoni e i fuochi d’artificio, Ryanair, e gli irlandesi. Le discoteche celebri che resistevano alla crisi tenendo il baricentro sulla musica house e le Pasque dei cagliaritani in trasferta.
E’ la Cagliari che ce l’ha fatta, e nessuno dei miei concittadini si offenda. Un viaggiatore avverte che è una città realmente turistica, pur con le tante remore a sfruttare tutte le potenzialità di un territorio bellissimo, non solo nella sua delimitazione urbana.
Alghero d’inverno è ora una cartolina sbiadita, ma pur sempre speciale di quella dolce vita mediterranea. Bisogna camminare spensierati aspettando la primavera, magari provando a ricordare i fasti del passato, perdersi tra vecchie insegne, hotel dal sapore riccionesco e stabilimenti in ricostruzione.
Nel centro storico stradine illuminate con negozi deliziosi, lampade sospese, cartelli in catalano solleticano la fantasia. Ci sono le influenze e i profumi di una storia lunghissima tra fasti e carestie dal XII secolo sino ai giorni nostri.
Tutto è ordinato, gioioso, festaiolo, anche se purtroppo c’è poca gente. Ma all’aperitivo serale giovani e meno trovano un posto per sorseggiare un drink e chiacchierare vicino alla Torre di Sulis.
Orange bar, drink, music and fashion, propone la musica reggaeton e trap. Clienti giovani, scelta in target. Il Ristorante il Pavone nasconde un’insegna di altri tempi.
I tavolini sono allineati nelle piazze, protetti da coperture frangivento. Nei ristorantini si offrono menù gustosi tra terra e mare, arricchiti da vini sontuosi come il Torbato, Sauvignon, Chardonnay e Vermentino tra i bianchi, il Sangiovese, il Cabernet Sauvignon, il Cabernet Franc e il Cagnulari tra i rossi. Nei tavoli si nascondono stranieri residuali, algheresi doc e viandanti come me in cerca di nuove sensazioni o ritorni al futuro.
Il mare dell’ovest Sardegna è la certezza, il tramonto uno spettacolo da godersi senza dover pagare nulla, “il sole che resta più a lungo” una frase azzeccata che accompagna il cartello d’ingresso alla città. È il raggio che si poggia fino a tardi su chiese, torri e costruzioni, voci del tempo che raccontano tradizioni, costumi di ogni epoca.
Il lungomare principale è un salto immediato a Barcellona: inizia dal porto storico, sotto le mura e termina al confine con Fertilia. L’idea, mi racconta l’amico Fausto Farinelli, è di farlo proseguire ancora. Ci sono tante opere incompiute e Alghero può dare ancora di più. Forse il sole, la bellezza del suo profilo, il mare che incombe e durante la sera diventa una voce in sottofondo, sussurra la necessità di rilassarsi e di non andare oltre. Non sprecarsi per creare una nuova città del futuro. Accontentarsi.
Mi fermo per far colazione sempre davanti alla spiaggia, tra il Kelu Lounge Bar e il Mar de la Plata, due bellissimi chioschi distanti un chilometro. Incontro un amico, Gianmarco. Mi racconta del suo amore per questa città. Ora lavora in un ristorante con cucina americana e ha trovato il suo equilibrio. Germania, Francia, e poi ancora Sardegna. “Voglio mettere radici qui” e fare questa scelta oggi è coraggiosa.
Beviamo un caffè a due passi dal mare, gioia degli occhi e della pelle solleticata dal vento. Poi lo saluto, una call di lavoro e sono impegnato per un po’. Mi chiedono da Milano da dove mi stia collegando. Mostro lo scenario attorno. C’è un po’ di benevola invidia.
Per pranzo vado al Lido che ha ancora una vecchia insegna e ti abbraccia tra l’azzurro delle pitture e quello del mare luccicante di metà giornata.
Il cameriere, simpatico e con tono di sfida, chiede subito “allora, terra o mare?” e poi racconta i gustosi piatti che la cucina propone. Deliziarsi con uno spaghetto e lo scenario della spiaggia è una altro spettacolo. C’è molto vento, stiamo dentro. La sala è grande e da una vetrata osservi il lungomare.
Ci serve una cameriera dagli occhi a mandorla gentili, protetti da occhiali con montatura dorata. Incrociamo per caso il signor Beltramo. E’ il gestore della struttura, in divisa da lavoro. Saluto Fausto che intanto va via. Il signor Beltramo mi invita un caffè e mi racconta di tutti i progetti, la sua storia, i ricordi cagliaritani. Mi presenta il personale e il figlio che lo sta aiutando nei lavori di ristrutturazione, con un invito “torna da queste parti, sei nostro ospite!”.
Mi metto le scarpette, devo provare Alghero da runner. Correre qui significa trovare un senso alla fatica. Gli occhi si rigenerano e puoi vedere cambiare lo scenario, tra lungomare, porto, bastioni e poi cala Bona, una insenatura protetta dove mi fanno compagnìa una famigliola che prova a entrare in acqua. Quando il sole cade sul mare il freddo comincia a farsi sentire. Alzo la zip della felpa ma capisco che serva a poco.
Sera.
Nei lungomari si accendono i lampioni, le città assumono un’altra veste, delicata, malinconica, tra una canzone di Carboni che “vedeva accendere stelle ad una a una” e di Jovanotti che resta disorientato facendo i conti col passato, sempre in un lungomare.
Alessandro, un caro amico che fa l’autotrasportatore ma lo vedrei bene come mio agente personale da DJ, mi porta sempre a scoprire ristorantini interessanti.
“Fermati o torno a Cagliari con dieci chili in più” ma lui, indomito, consiglia posti e propone con una recensione accurata. La Saletta e poi l’Aragon. Poi una pizza al Miramare. Anche lui è diventato algherese.
Alghero è sarda e italiana, un po’ tutto e un po’ niente, ma non solo, come si può immaginare facilmente leggendo i nomi delle strade, in doppia lingua e assaggiando la regina delle ricette locali, l’aragosta alla catalana. Enclave vera e propria del regno iberico, tutto ad Alghero rimanda a Barcellona. Ed essendo Barcellona una mia seconda casa, anche Alghero oramai sta diventando un luogo dell’anima.

Bitti, ferite e futuro

Non so se sia una caso con la bella notizia della zona bianca, ma oggi sono a Bitti per una bella iniziativa della Federazione calcio, in una giornata di sole.
Essere qui significa vedere, metro dopo metro, il contrasto tra una natura che ti affascina e ti rende un puntino, e i segni delle ferite, il terreno violentato dalla furia di acque e detriti in ogni suo angolo.
Ferite che si riemargineranno, ne son certo, e che non scalfiscono l’orgoglio dei bittesi, che tengono duro, e anche oggi lavorano alla sistemazione.

Poi c’è la speranza.
C’è il signor Giorgio che, incuriosito delle foto che sto facendo, mi mostra la sua casa in via Cavallotti e indica il livello dei detriti: «Pensa che fino a lì era tutto fango, non è facile ma ci proviamo». Mi regala un sorriso genuino.
I piani di sotto sono sistemati, le serrande sono nuove, alcune cantine sono riutilizzabili, ma la strada e alcuni caseggiati nei dintorni sono incerottati e polverosi.

Nella bella piazza c’è il Comune, con una facciata bianca pulita, e vicino Su Zilleri de Pigozzi con il tendaggio verde.
Targhe vecchie e nuove, San Pellegrino, Ichnusa, gelati Motta e ancora attenzione, pericolo, con ritmo e velocità Ninnè con i suoi occhiali a goccia e la capigliatura folta sforna caffè e birre e poi avvisa tutti “Saludi pitzinnos e a chent’annos” mentre sorseggia un bicchier d’acqua pronto a mo’ di fil’e ferru.
La voglia di ripartire è negli sguardi orgogliosi di due appassionati di calcio che ricordano i fasti della Bittese, nei panni stesi al sole, nella parole del sindaco: « Non basta ricostruire case, bisogna anche rimettere in movimenti culturale, sport e socialità».
Il paese è un grande cantiere, dove tutto viene rimesso a posto. Come in Piazza Giovanni dove una tenera madonnina con fiori freschi controlla un incrocio di varie direzioni e una cassetta delle lettere solitarie. Chissà quante parole e sentimenti saranno passati per quel pertugio.
L’alluvione ha tagliato il paese tanto che per andare da una parte all’altra bisogna trovare soluzioni che i navigatori non suggeriscono. Strette viuzze che celano segreti e piccole storie. Una chiesetta aperta con i banchi vuoti e il sole che entra, un cartello stop tondo, una donna che si allontana in una salita polverosa, un archetto dove passare con fatica con l’auto e ancora i comignoli e case abbandonate chiuse da arrugginiti cancelli.

Com’è che diceva Cremonini? “qua in Sardegna splende sempre il sole anche quando è il caso di far piovere sul cuore”. E il sole anche oggi splende su Bitti. Su questo bel campo dove dei bambini giocano. La speranza ha forma di pallone.

Due giorni a Santu Lussurgiu

Il racconto di due giorni a Santu Lussurgiu, un viaggio, quasi per caso, a dicembre del 2020.

LA SERA A SANTU LUSSURGIU

Immaginate di lasciare la 131 e accendere la macchina del tempo, trovare dopo chilometri e chilometri di pioggia e nebbia un luogo dove il tempo scorre lento, dove non esiste la frenesia delle giornate scandite dai ritmi imposti dalla moderna società, dove lo stress delle città è davvero lontano.
Un luogo che si nasconde tra luci giallognole e solitudine dettata dal freddo e dal lockdown. Un luogo dove, se ci arrivi quando è sera come me oggi, sembra di stare immersi in una favola di Collodi.
Eccomi allora scendere in strada, nelle meravigliose e antiche vie acciottolate, ammirare gli angoli, i ricordi, i rumori, tra un tocco di campane e una grondaia, un uscio che sbatte lontano e il più classico dei profumo di caminetto.
Fantasma nella sera, accompagnato solo dai passi. Quando trovo la pizzeria, con un portone di casa e un scritta di legno con scritto APERTO mi chiedo se sia davvero una pizzeria. Ma l’indirizzo è quello giusto. Prendo coraggio, busso e appare una vecchia osteria con un camino enorme, una tovaglia biancorossa e il proprietario novello Mangiafuoco.
Sembra un luogo del passato, dove i viandanti si riparavano dalla neve aspettando che finisse la tempesta. Perchè qui a Santu Lussurgiu, borgo immerso nelle rocciose vallate del Montiferru, si respirano le atmosfere del passato.
Parlo con il simpatico signor Mangiafuoco – lo chiamo così con rispettoso affetto, non avendogli chiesto il nome – che mi racconta che qui prima c’era un fienile e gli animali. Poi questo spazio è stato liberato da una decisione dell’amministrazione e dato in concessione. Che dietro c’è un bellissimo vecchio mulino, purtroppo crollato e non si sa quando lo rimetteranno in sesto. Che quando la pizzeria era aperta si respirava un’altra aria. Ora son tutti a casa.
In pochi minuti, mentre prepara una pizza fragrante, mi racconta del Carnevale, della musica, di una grande attività culturale, della tranquillità che si respira. Dice che d’estate sia tutto più animato. E io aggiungo: perché togliere questa sensazione fatata del freddo e dell’inverno? Io amo il freddo!
Mi sento a casa, sento un luogo dove poter ritrovare la propria anima.
Vado via riprendendo la strada per l’intricato dedalo di viuzze poco illuminate, silente e pensieroso. Ho una strana sensazione, la solita: ma come sarebbe vivere a Santu Lussurgiu?

IL GIORNO A SANTU LUSSURGIU.

E quando viene giorno, Santu Lussurgiu riserva altri colori e altre emozioni, sempre speciali
Oggi c’è il mercato e la piazza sotto la chiesa di Santa Maria degli Angeli si è animata di gente che contratta la verdura e gli oggetti in vendita. Qualcuno scherza sulla mascherina e le donne, riempita la busta della spesa di gustosi prodotti, tornano nella case perdendosi in questo intricato dedalo dove ora fanno da padrone i rumori di artigiani e lavoranti.
Al Bar Raju Ruiu – modernissimo e caldo – mi fermo per colazione osservando un po’ di vita, gli operai che asfaltano la strada, i passanti, incrociando un gruppo di ragazze universitarie che prepara un esame al tavolo vicino, chiacchierando anche dei docenti e del futuro del proprio corso. Studiano scienze sociali, così ho capito.
Dal ristorante Bellavista al primo piano si gusta un menù di terra, con un sottofondo musicale jazz che rompe il silenzio.
“Una tagliata di sardo modicana con patate” mi consiglia la giovane cameriera con i capelli a spazzola. Di fronte al mio tavolo si apre una veduta speciale che abbraccia i tetti del paese, su cui il fumo dei comignoli si eleva, quasi volesse difenderli dalle intemperie di questo 2020 o forse dalle ansie e dello stress del mondo che corre a pochi chilometri da qui.

CONSIGLI
Dove alloggiare: bnb Templars Guest House
Dove mangiare: ristorante Bellavista | bar Raiu Ruiu | Locanda del Convento

TUTTE LE FOTO https://www.facebook.com/media/set/?set=a.10221533550502158&type=3

Carloforte, Mediterraneo

“Cosa posso farci, se io sono nato nel Mediterraneo?”
C’è sempre qualcosa di speciale nelle città di mare e prendere un traghetto e sentire anche solo quell’odore acro di gasolio, ferraglia e salsedine, la spuma e l’approdo in un altro luogo ti riconcilia con la vita.
Alle 18 la bianca Parrocchia di San Carlo Borromeo rintocca e i pochi fantasmi per il centro si diradano.
I bimbi tristi puntano le bici verso casa e tante piccole lucciole si perdono nelle ombre della sera. Gli anziani stanchi cominciano la camminata, i bar riordinano le sedie e chiudono i conti in cassa.
Tutto si ferma in questi angolo di Mediterraneo, lontano dalle ansie del mondo e dagli stress delle metropoli.
Resto io e pochi temerari a sfidare questo lockdown mentale. Forse solo io. Camminando per il dedalo di strade che nascondono segreti di famiglie, decifrando rumori di pompe di calore, guardando insegne curiose, menù disposti sugli angoli, chiacchierate lontane e motorini, profumi di forno a legna e venticello che solletica la pelle. A un certo punto sono davvero solo: mi siedo nei gradini e mi faccio cullare dalla magia del momento sicuro che nessuno in questo angolo di terra, tra questi scalini con ciuffi d’erba casuali, possa disturbarmi.
“Cosa posso farci, se io sono nato nel Mediterraneo?”

Giara di Siddi

In questo momento di incertezza non mi va di richiudermi a casa. Così, prendo la macchina e mi allontano dalla città.
Scopro che ci sia un’energia nei nostri territori e paesi che quasi ti mette in crisi. La avverti, la vivi, cerchi di farla tutta tua. Attimi di beatitudine da non farsi scappare quasi fossero l’ultimo treno della notte.

Ieri sono finito quasi per caso all’altopiano di Siddi, a ripescare tante cose: i ricordi da bambino, la serenità, la gioia di vivere, la dolcezza della vita agropastorale, quell’ultimo giorno che vidi mio padre in forma. Ricordi belli, sensazioni e nostalgie che non si sciolgono.

Il rumore delle pecore, il fruscio del vento, un pastore che mi raccontato il suo lavoro e la sua vita con quella semplicità che ti stupisce, le luci dei paesini all’avanzare della sera, dopo un tramonto infinito.
Cose semplici, in tempi dove l’odio e l’isteria hanno preso il sopravvento.

Preparando le vostre cazzo di autocertificazioni metteteci anche questo: il diritto a essere liberi e goderci la natura, a uscire per un motivo alto e nobile, noi stessi e la nostra vita. E questo lo dico a certi politicanti e ai loro vassalli, agli yesman travestiti da anime pie e tutti i servi che fanno parte della nostra società, con o senza medaglie, che hanno venduto la nostra dignità per due euro. Che hanno giocato a testa o croce col dolore di chi ha voce, di chi soffre, di chi obbedisce tacendo.

Distanti da tutto e da tutti, responsabili e consapevoli, ma liberi e vicini al proprio cuore e alla gente, quella vera.

Un giorno a Figueira de la Foz

Un litorale lunghissimo, una spiaggia enorme e la viviacità di ua città cosmopolita e vivace. Un posto dove perdersi e addormentarsi in un magnifico tramonto o con una corsa perdifiato.

Figueira da Foz è la terza tappa del mio viaggio, alla foce del fiume Mondego, una delle principali località di villeggiatura del Portogallo dalla fine del XIX secolo, quando “i bagni di Figueira” erano un’abitudine tra l’aristocrazia del Centro de Portugal.

Ci vuole un po’ di camminata per raggiungere la spiaggia, la più estesa del Portogallo continentale, una immensa distesa di sabbia che abbraccia uno skylinea europeo che la notte diventa uno sfavillar di stelle, di ristoranti e localini. E mi diverto nel pensar che davanti a quella spiaggia ci sia la distanza, il continente amerciano, un altro mondo. 

Figuera rilassa, specie se la visiti fuori dalle stagioni più affollate. La spiaggia è talmente grande che hai uno spazio immenso per vivere e respirare, goderti il silenzio e la distanza. Il litorale invita una corsa al tramonto. Così accade, partendo dal grande orologio, e la situazione è talmente emozionante, vento, salsedine, rumore del mare e tramonto, che quella corsa diventa occasione per sfidare la voglia di andare avanti, oltre,  più veloci, raggiungendo e superando Cabo Mondego e le sue secche, che regalano un panorama notturno suggestivo, dove cominciano a nascere scogliere che vanno fino a quaranta metri sul mare.

Nelle vicinanze c’è il Castello di Montemor, residenza dei re e delle principesse del Portogallo.sulla cima di una collina, teatro di numerose battaglie fra musulmani e cristiani. Saranno vere tutte le leggende che si narrano a riguardo? 

Prima di lasciare Figuera voglio regalarmi una delle sette meraviglie della gastronomia portoghese: il pastel de Tentúgal. Questo dolcetto, profondamente legato alla vita conventuale, coniuga alla perfezione ingredienti classici come lo zucchero, la cannella, le uova e la pasta fillo. Una vera delizia!

Ritorno a Porto

La pioggia mi sorprende mentre scendo dalla stazione di Sao Bento, le meravigliose Azulejos che ornano l’atrio sono sempre là a ricordarmi l’azzurrino che ti insegue in ogni angolo. Finalmente la città si è animata, come se questi giorni si fossero nascosti tutti al mio arrivo. Allora puoi vedere delle figure interessanti in giro, se solo hai la lentezza di non correre e aspettare. Come il plastificatore dei documenti che all’occorrenza sa tirar fuori gli ombrelli senza peròc conquistare l’attenzione di veloci e distratti passanti malgrado lanci qualche epiteto alle più belle signorine. Un altro uomo, capelli lunghi e polo scolorita, sta suonando la chitarra dentro un negozio di strumenti musicali, per attirare l’attenzione di un incrocio altrimenti senz’anima se si esclude l’alternarsi tra verde e rosso. Note che riscaldano in questa sera che anticipa l’autunno che qui si presenta attraverso duri venti d’oceano che non lasciano scampo alle case leggere di Porto, non sempre troppo riscaldate e pronte agli inverni. Si cammina nei pavimenti eleganti ma scivolosi fatti di bianco sanpietrino prima di trovare posto nei bar di fortuna che si dividono tra botteghe e caffé infighettati da grafiche senz’anima e menù con immagine coordinata e poi quelli retrò che restano orgogliosamente legati a vecchie insegne e mobilia poco alla moda, dove baristi dalle storie infinite puliscono con stracci di fortuna banconi di birre abbandonate. Mancano otto interminabili minuti all’arrivo della mia stanza, mentre il vento mi toglie il cappuccio della testa e mi fa sentire la pioggia sul capelli. Inizio a sentire pire la stanchezza ma forse di più la fine del viaggio e il rientro alla normalità. Ultimo sprint, ennesima salita, come un mediocre Coppi credo di aver ben sostituito oggi la mia corsa che avevo scritto nel quadernino rosso con le camminate tra Figuera, Coimbra e ora Porto. La pioggia è pericolosa, presentarti agli imbarchi con un raffreddore potrebbe portarti a denuncia. Negli ultimi metri sento ancor più l’anima di Porto in un barbiere che aspetta un cliente che mai arriverà e una bottega di frutta dove la commessa sceglie a perfezione i fichi da inserire nel sacchetto di carta grigia, andando poi a indicare il prezzo con la penne. Più ti allontani dal centro più accadono cose. E la pioggia, come di incanto, lascia spazio al sole. Ultimo tramonto portoghese, almeno a sto giro. (Di Coimbra e Figuera da foz parlerò più avanti 😎)

Viaggiatori contemplativi

L’amica Giulia Loglio, esperta di turismo contemplativo, mi ha insegnato tempo fa una parola nuova: flaneur, che vuol dire “passeggiatore svagato e a momenti curioso”. Le parole aprono mondi e suggestioni infinite, che puoi riempire poi di contenuti.
Ho finalmente trovato qualcosa che riassumesse un modo di viaggiare che adoro, disincantato, leggero, scazzato, curioso e senza ritmi turistici.
Pochi punti di riferimento, molta casualità, vicoli incerti e luoghi meno battuti.
Si rischia di sbagliare, di perdere tempo, ma forse il genius loci o il dio dei viaggiatori ci trova sempre una soluzione!

Oggi mi son inerpicato per le vie strette di Coimbra senza una direzione particolare, se non quella di salire e salire, non senza fatica, incuriosito dal silenzio e dai vicoli senza fine che nascondevano giardini e case abbandonate, fichi e piccole taverne. E trovare poi tante cose interessanti da vedere, non sempre scontate!
Grazie ancora Giulia!