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Discoteche

Era il 7 marzo il weekend della prima chiusura delle disco. Sembrava una roba di pochi giorni e invece eccoci qui, a vagare per un’altra notte infame, luci e insegne spente di locali che un giorno si accendevano e pullulavano di gente.

Tre mesi lunghissimi quasi fosse una vita, in cui abbiamo provato a credere di poter fare a meno delle notti in disco, della musica dalle consolle, del ritrovarsi, bere, ballare e fare gli scemi fino a tardi e anche sfotterci come in un grande campionato di calcio.

Soho, Room, Club, Lido, Jko, Manhà, Linea, eccetera eccetera. Tutti con i propri colori e sciarpe. Tutti con la voglia di fare il meglio e il massimo, di portare a casa il risultato.

Bene, ancora non ci arrendiamo all’idea che questo mondo di illusione e luci, di pasta e gel nei capelli, tacchi a spillo, gonne, look e di strane connessioni dell’anima, che ci permette di star bene nonostante problemi e casini di ogni giorno, vite spesso precarie, sia ancora fermo.
Sembra assurdo ma è così!

Cosa vuol dire per un organizzatore, un dj, un vocalist, un pierre, un tecnico luci, o un barman o un cliente semplicissimo dopo anni e anni di weekend impegnati non avere quell’appuntamenro con la notte?
Sentirsi un po’ soli, un po’ meno magici, un po’ più disorientati. Io son così e non me ne vergogno.

Spero che la fortuna torni dalla nostra e che in qualche modo tutto ricominci.
Ne son certo.
Che le luci si riaccendano sulle piste e i privè. Che le consolle illuminino i cuori di buon ritmo, che le disco ripullulino di energia e vita, e si torni a prendere quelle cazzo di colazioni delle sette nel bar preferito, a pensare al miglior pezzo da mettere in pista, a giocarci l’ultimo cliente per quel tavolo in posizione tattica, l’ultimo drink o la bottiglia.

Perchè la disco non è quello che ci fanno credere molti. È molto di più: la vita, è la famiglia di alcuni e di tanti, è la nostra attesa, il nostro appuntamento con la gioia, la quotidianità.

Ci sfotteranno pure, rinnegheranno il loro essere stati qui, faranno la morale sul divertimento, ma non potranno mai negare che sia un mondo troppo bello per essere compreso da comuni mortali che vanno a letto alle dieci.

❤️

“Press play, fast forward
Non stop we have the beaten path before us
It was all there, in plain sight
Come on people, we have all seen the sunshine
We will never get back to
To the old school
To the old rounds, it’s all about the newfound
We are the newborn, the world knew all about us
(We are the future and we’re here to stay)
We’ve come a long way since that day
And we will never look back, at the faded silhouette
We’ve come a long way since that day
And we will never look back
Look back at the faded silhouette”

(Scritto mentre ascoltavo Silhouette di Avicii, al porto di Cagliari, così, per caso)

Empatia (grazie al coronavirus)

Ieri notte una mia amica mi ha scritto un messaggio, era il solito strano sabato, senza impegni da DJ, come oramai succede da qualche mese. Un sabato tranquillo, che vivi a casa, leggendo qualcosa o guardando la tv.

“Questa sera dopo aver lavorato a pezzi durante la giornata, pulito, fatto da mangiare ed ascoltato l’intervista di Tixi, verso le 19 sono andata a fare la mia solita 30 minuti di scale, su e giù. Cuffie e radio per caricarmi. Solitamente funziona ma poi ho sentito una donna alla radio che piangeva per la sua situazione, piangeva disperatamente
Ho pianto per un ora
Questa parte di vita mio dio non si potrà mai dimenticare, un silenzio e le lacrime. Oggi la mia creatività è andata a farsi fottere. Vorrei fare un post creativo ma non ci riesco domani sarò più positive amico caro”.
Le chiedo come mai quella donna piangesse.
“Per la sua attività, le bollette continuano ad arrivare e lei non ha liquidità non c’è la fa, lei come tanti altri. E sentirla, mio dio quanto piangeva era come se fosse morto un parente stretto. Qui la gente si sente tradita dalla terra
Da gente che parla e basta e io vorrei poterli aiutare, e non so come fare Nico, vorrei aiutare me te tutti ma siamo in movimento ma immobili. Non so scusa questa è la percezione”.

Credo che questa crisi dovuta al coronavirus abbia messo in mostra i nervi scoperti delle nostre comunità ma abbia anche permesso a tante persone di riscoprire e condividere una bella cosa: l’empatia e la sensibilità, la capacità di farsi carico anche del disagio altrui, anche se non si conosce. Ed è una qualità che hai o non hai, senza mezzi termini.

Ieri c’era un bel film in tv, Amarsi troppo. C’è una scena perfetta che racconta la parola empatia dalla voce del buon Ferruccio Amendola, doppiatore del come sempre impeccabile Al Pacino.

https://www.youtube.com/watch?v=7bfwJrxWJB4

Storie (belle) di quarantena – L’Hotel a Fluminimaggiore

La storia di oggi arriva da Fluminimaggiore, nel Sulcis.
A Portixeddu c’e un piccolo hotel, di nome Sardus Pater, che riceve una mail da un cliente.
Il direttore Francesco pensa all’ennesima defezione. Una delle tante che arrivano queste settimane a tante strutture isolane. Una delle tante che conferma che sará una stagione di magra in un territorio già povero e dimenticato.
Apre e legge: “Quei soldi che avevamo già pagato, li potete tenere”.
Sono due turisti tedeschi che avrebbero dovuto passare le vacanze estive nell’Iglesiente. Hanno lasciato la caparra, circa 300 euro.
Ci sono ancora piccolo gesti di comprensione e solidarietà tra persone normali, che non guardano la politica e la provenienza.
Ci sono anche valori oltre il denaro.
Una piccola storia bella in questi giorni difficili.

Pensieri di quarantena – 15 aprile

A cosa stai pensando? chiede facebook.
Beh, stamattina ho molti pensieri, un mix di rabbia e amarezza, ma anche tanta voglia di ricominciare.

Penso agli amici che mi scrivono e mi dicono che hanno pochi soldi.
A quelli che sussurrano di essere depressi.
Ricevo molti messaggi ogni giorno e provo ad aiutare chi posso.
Penso ai giovani rinchiusi in casa.
Penso a mia madre, ai miei parenti e ai mille anziani tumulati nelle proprie abitazioni (e forse fino a dicembre).
Penso a quei medici e infermieri morti e a quelli che vanno a lavorare in luoghi non sanificati. Non sono eroi, ma vittime.
Penso a quei sindaci e amministratori che stanno vicini alla gente senza fare le star.
Penso agli imprenditori, un po’ come me, che stanno ragionando su cosa fare per salvare il salvabile.
Penso ai mille artisti musicisti, dj, pr, organizzatori, gestori di locali, operatori, collaboratori, persone che lavorano nel mondo dell’intrattenimento e che non sanno quando e come ripartiranno.
Penso a quei lavoratori costretti in condizioni gravi a non poter rinunciare al lavoro.
Penso ai colleghi giornalisti onesti, che non truccano e raccontano la verità.
Penso alle forze dell’ordine che tengono dritta la barra della ragione e dell’umanità quando devono fare il loro dovere.
Penso agli amici di Bergamo, Brescia e a tutti quelli che hanno avuto un lutto e sono più colpiti.
Penso alla Spagna, patria che mi è sempre stata vicina da mille viaggi e ricordi.
Penso a tutti quelli che perderanno qualcosa, forse tutto. Non solo gli affetti, ma i sogni, i progetti di vita, il futuro.
Penso a quelli che dovranno ricominciare dall’inizio.

Non penso a chi ha il culo parato e non perderà nulla da tutto questo. E continua a pontificare.
Non penso a quelli che danno per oro colato qualsiasi cosa che vedono e leggono.
Non penso a quelli che raccomandando di “stare a casa” con stipendi da favola e appartamenti di lusso.
No, mi spiace. I miei pensieri sono altri.

Italia?

In una breve pausa dal mio lavoro di scrittura mi fermo e penso alla campagna mediatica “vivere in Italia” “godere in Italia” e “restare in Italia”.
A questo patriottismo di cartapesta sbandierato senza nessuna ragione logica, senza valore e senza contenuto. Giusto per tenere buoni e coglioni tutti, e proveniente da ogni angolo.

Ma in questo caos disorganizzato di regole, personalismi, bigottismi e sceriffi da balcone, di tv impazzite, di mediocri felici di vedere morire didepressione altri, di sanitari mandato allo sbaraglio, di anziani sacrificati in RSA, di politici scarsi come nessuno, ditemi chi ha voglia di vivere in Italia e di ascoltare questa patetica propaganda da Minculpop.
Perché io ho davvero i miei dubbi.

Quello che ci lega a questo paese è il nostro equilibrio, la pazienza, l’amore per il nostro lavoro, la musica, le persone che ci sostengono e quelle per cui restiamo, la voglia di resistere e tenere salda la barra della ragione e della fantasia.
Penso ai Matteo, Maurizio, Cinzia, Riccardo, Andrea, Sonia, Stefano, Francesco, Alessandro, Michela, Roberta, Alessia, Francesca, Marco, Maria, Nicola, Luca, Tonio, Lello, Anna, Paolo, Liliana, Simona, Fabio, e tanti altri nomi di persone che conosco (la lista sarebbe lunga).

Ma quando questo amore metterà a rischio la nostra esistenza, quando sentiremo che la coglionaggine diffusa sarà devastante, appena possibile il biglietto di sola andata sarà la soluzione.

Quindi, meno si tira fuori questo finto patriottismo che è solo cieca obbedienza, meglio è.

(Ps dimenticavo: sono figlio di militari e ho fatto il servizio di leva)

La vita dopo il coronavirus: la splendida lettera di David Grossman

Come saremo alla fine della quarantena? Cosa ci lascerà in eredità questo periodo di vita?

Viviamo un momento unico, in cui abbiamo rimesso in gioco tante idee che pensavamo scontate. Chi si sarebbe mai immaginato di dover stare a casa senza poter uscire, privati delle nostre abitudini, passioni, progetti e lavoro?

Guardavamo da lontano il coronavirus come la solita notizia da scorrere, dalla distante Cina, senza nessuna preoccupazione. Anche voi lo avete fatto? ebbene sì, lo ammetto. Anche io.

Eppure questo piccolissimo virus ha sconvolto l’intera umanità, facendo pagare un prezzo altissimo in termini di vite e chissà quali altre conseguenze economiche, psicologiche, sociali. La paura, l’isolamento, l’incertezza sta facendo ugualmente danni che sconteremo nel lungo periodo.

Tutti non vedono l’ora di tornare alla normalità, riprendere la propria vita, riabbracciare le persone. Purtroppo non sarà possibile a breve.

Poi, ritorneremo alla stessa normalità? Quella di stress, inquinamento, consumismo, calpestare ogni diritto, competitività all’estremo, violenza?  Quella normalità in cui anche la depressione era una costante. Eravate felici? E questo non c’entra nulla con la libertà che abbiamo perso. Eravamo felici di timbrare il cartellino in inutili eventi, chiuderci in centri commerciali, misurare la nostra vita con i campionati di calcio, sorridere come fessi davanti a un aperitivo e economizzare ogni aspetto della vita? Non so davvero cosa rispondere.

Di certo ci manca la normalità la quotidianità e la libertà. E pensare che questa sia una situazione che possa durare nel tempo, è da matti.

Però c’è la curiosità del tempo che verrà, del futuro, di una nuova era. Per lo scrittore israeliano David Grossman, non è detto che l’emergenza coronavirus non possa insegnarci a essere più umani.

Come scrive in una bella lettera su Repubblica qualche giorno fa: “Quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge o al partner. Di mettere al mondo un figlio o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui».

«Di brutto sogno in brutto sogno sono gli uomini a passare… pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro?»

Grossman non crede che il mondo uscirà sconfitto da questa pandemia. «Siamo sofisticati, computerizzati, equipaggiati con uno stuolo di armi, vaccinati, protetti dagli antibiotici». Che il coronavirus sia stato sottovalutato, però, è innegabile.

Quando l’emergenza sarà finita, l’umanità ne uscirà migliore perché consapevole della sua fragilità e della caducità della vita. Uomini e donne fisseranno nuove priorità e impareranno a distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. «Ci saràchi, per la prima volta si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché sprecano l’esistenza in relazioni che provocano loro amarezza. Ci sarà forse chi si domanderà perché israeliani e palestinesi continuino a lottare a distruggersi la vita a vicenda da oltre un secolo, in una guerra che avrebbe potuto essere risolta da tempo. Ci sarà forse chi, osservando gli effetti distorti della società del benessere, si sentirà nauseato e fulminato dalla banale, ingenua consapevolezza che è terribile che ci sia gente molto ricca e tanta altra molto povera. Che è terribile che in un mondo opulento e sazio non tutti i neonati abbiano le stesse opportunità. E forse anche i mass media, presenti in modo quasi totale nelle nostre vite e nella nostra epoca, si chiederanno con onestà quale ruolo abbiano giocato nel suscitare il generale senso di disgusto che provavamo prima dell’epidemia».

Empatia

Ieri ho visto un babbo che accompagnava la figlia in bicicletta sotto casa. Poi ho visto un disabile seduto in una panchina. Da solo. Poi ancora un anziano fermarsi in un parchetto, sempre da solo.

Ho incrociato occhi stanchi e con poca speranza. Ho sentito la loro voglia di rubare un briciolo di sole e aria col timore di essere giudicati per quel bisogno elementare di vita.

Non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello l’idea che fossero degli untori o di fare la sentinella. Non ho acceso il computer per scrivere “troppa gente in girooooo!1!1!1” e ricevere tanti likes.

Ho sentito l’umanità aggrapparsi al tentativo di sopravvivenza, al dovere di non rinchiudersi per soccombere di altro.

La guerra sociale è un concetto che a casa mia non entrerà mai, nonostante il quotidiano bombardamento di paura e colpevolizzazione.

La tragedia esiste, il rispetto per il dolore e lavoro pure di chi sta in prima linea nessuno lo nega, ma la costruzione comunicativa del senso di colpa non mi trova d’accordo.

Abbiamo bisogno di empatia e speranza, non di rabbia e frustrazione condivisa.

Buone maniere in temi di coronavirus

Se sentite che il vostro vicino ha dei sintomi, non guardate fuori dalla finestra per vedere se lo beccate che esce a fare la spesa. Chiedetegli se ha bisogno di qualcosa.

Se vedete gente per strada che cammina nel vostro quartiere, cercate di non sospettare il peggio, non chiamate il 112. Forse dovevano andare a lavorare. Non tutti hanno il privilegio di chiudersi in casa con il frigorifero pieno.

Se dovete uscire a fare la spesa, non guardate male chi avete intorno per paura di infettarvi. Salutate. Fate conversazione anche per un secondo. Non è il vostro nemico.

Se incontrate qualcuno che vive per strada, non attraversate l’altro lato della strada per paura. Se potete, uscite di casa con del cibo, una maschera in più, un po’ d’acqua in una tanica.

Se vedete qualcuno impaurito o disorientato chiamalo per rassicurarlo. Chiedigli come stia.

Diffondete positività, muovetevi, coinvolgete gli altri ad essere dinamici e non abbattersi

Evitiamo di condividere il virus della paura, quello non andrà più via.

(ispirato a un volantino spagnolo)

Primavera, nonostante la quarantena

Oggi l’aria sa finalmente di primavera. Cercate di rubare un po’ di sole, respirate a pieni polmoni se potete.
Poi penso: da Nord a Sud si moltiplicano le iniziative e i gesti di solidarietà. Alberghi che danno ai medici stanze gratuite a Udine, medici in pensione che tornano in corsia, negozi e professionisti che concedono servizi e cittadini che preparano pasti per i medici. Ma non basta: a Napoli si ristrutturano a tempi record padiglioni di ospedali. A Milano si è accelerata la macchina organizzativa.
Alcuni dei tanti esempi.

Insomma, è solo la paura di morire o anche una generosità e operosità che in fondo abbiamo, al netto di diffuse caccia alle streghe e invidie da vicini frustrati?
Ecco di cosa bisogna parlare. Cosa bisogna scrivere in giro. Cosa bisogna comunicare. Per farci voler bene, per imitare i gesti positivi.

Ricorderò sempre le parole della guida polacca di un campo di concentramento che visitai qualche anno fa: nonostante tutto, prima o poi la primavera arriva.

(Ci vediamo in diretta alle 15 sulla pagina Facendo “Cose” a Cagliari. Parliamo di belle cose con Sonia Carta!)

Crisi comunicativa (da coronavirus)

Nessuno nasce preparato alla gestione comunicativa di una crisi, men che meno per un’emergenza di questo genere.

Le Istituzioni, come ho sempre affermato, sono da anni indietro sul lato comunicazione e ora sono state obbligate – con la sensazione di proprio non volerlo fare, tipo quando ti invitano a una festa e tu fino all’ultimo non vuoi uscire e se ci vai tieni il muso – a dover colmare gap epocali ed errori, facendo fronte a uno scenario nuovo.

E’ stata la prima emergenza importante ai tempi della disintermediazione generata da fonti di informazione secondarie, in particolare i social e le applicazioni messaggistica personale, che oramai vengono utilizzati dalla larga parte della popolazione.

“La comunicazione, e mica sarà un’urgenza!”, quante volte abbiamo sentito questa frase nel nostro piccolo mondo lavorativo?
“Perchè investire in comunicazione, me la faccio da me!”, e questa?

Molti operatori politici e istituzionali hanno pensato che si potesse ragionare ancora con gli schemi di decenni fa: comunicati stampa, articoli preconfezionati, interviste tv, magari anche i segnali di fumo. Sui social, tanto “ci sono i ragazzini e gli incazzati”. O i webeti.

Invece no, il mondo è cambiato. Da troppo tempo. E la comunicazione è un aspetto delicato, fondamentale, che fa la differenza. Non è un gioco da ragazzi o un passatempo.

In tutto il periodo in cui le istituzioni hanno dovuto capire che i social fossero importanti e si son dovuti riorganizzare con soluzioni d’emergenza – homemade tipo quando non sai cucinare e devono arrivare gli ospiti e allora scongeli la pizza – i cittadini si son trovati nel caos.

Caos dovuto all’infodemia da una parte (lo scenario nazionale e il mondo dell’informazione) e la povertà di informazioni dall’altra (le istituzioni in Sardegna). Risultato? Paura e incertezza e ricerca di informazioni in ogni dove, alimentando dubbi e fake news.

Pagine facebook organizzate last minute, siti improponibili, video creati senza preparazione, parole nell’aria senza un minimo di attenzione alle formule e ai toni: anche semplici strumenti comunicativi sono stati utilizzati perché “si doveva” non tanto perché se ne conoscesse il valore e il fine.

E così sono andati avanti toni sensazionalistici, dichiarazioni, appelli, urla, parole d’ordine che sembrano più da campagna elettorale o da chiamata alle armi che da comunicazione in crisi.

L’assenza di obiettivi chiari e di un piano comunicativo, di persone che coordinassero e filtrassero gli umori o ordinassero dati e informazioni ha fatto il resto, generando confusione e disordine, lasciando scorrere come un fiume in piena l’onda emotiva.

Alla fine, quello che trapela oggi è solo caos, umore, rumori di fondo, parole contraddittorie e improvvisazione.

Eppure si poteva e si doveva fare altro: meno allarme, meno emotività, più coordinamento, semplicità, chiarezza e puntualità.
Far sentire le istituzioni vicine, raccontare le opportunità, valorizzare le buone pratiche. Trasmettere fiducia e sicurezza, delineare i percorsi, non solo alimentare paura e sfiducia a un’opinione pubblica fatta di UOMINI e non solo di deficienti. Che stanno vivendo una situazione mai nemmeno immaginata.

E non sarebbe stato male nemmeno un sito per coordinare e gestire le informazioni, una sorta di piattaforma digitare in cui convogliare notizie, dichiarazioni, dati, ma anche testimonianze positive.

Tutto questo, purtroppo non è stato fatto ed oggi si può solo restar fermi all’ennesima diatriba politica, se sei di destra o se sei di sinistra, bravi clap clap, impallinare chi prova a ragionare nel caos e offrire le sue idee, tacciandolo di intelligenza col nemico (il virus) e di poco rispetto per le vittime e per chi lavora negli ospedali. Formula talmente vecchia che nemmeno chi la dice ci crede.