Ieri ho visto un babbo che accompagnava la figlia in bicicletta sotto casa. Poi ho visto un disabile seduto in una panchina. Da solo. Poi ancora un anziano fermarsi in un parchetto, sempre da solo.

Ho incrociato occhi stanchi e con poca speranza. Ho sentito la loro voglia di rubare un briciolo di sole e aria col timore di essere giudicati per quel bisogno elementare di vita.

Non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello l’idea che fossero degli untori o di fare la sentinella. Non ho acceso il computer per scrivere “troppa gente in girooooo!1!1!1” e ricevere tanti likes.

Ho sentito l’umanità aggrapparsi al tentativo di sopravvivenza, al dovere di non rinchiudersi per soccombere di altro.

La guerra sociale è un concetto che a casa mia non entrerà mai, nonostante il quotidiano bombardamento di paura e colpevolizzazione.

La tragedia esiste, il rispetto per il dolore e lavoro pure di chi sta in prima linea nessuno lo nega, ma la costruzione comunicativa del senso di colpa non mi trova d’accordo.

Abbiamo bisogno di empatia e speranza, non di rabbia e frustrazione condivisa.