La fiesta è andata

(scritto ieri, più o meno a quest’ora)

Ultime ore all’aeroporto di Girona. Cerco qualcosa di italiano tra i giornali ma non c’è nulla. Arrivo con un anticipo vergognoso dettato dal mio timore di far sempre tardi. Mi aspettano 3 ore di nulla in cui cazzeggerò con l’iphone, finirò il libro di Baricco, tenterò di pensare a quel che devo fare in madrepatria, a quel che ho fatto in Spagna e ai posti dove voglio andare la prossima volta.

 

Scatta anche il solito gioco “indovina il cagliaritano” in cui tento di riconoscere con un solo sguardo chi sono i miei concittadini all’aeroporto. Non ci vuole molto: perfettamente trassati e curati nei particolari, si distinguono facilmente dal resto della gente che affolla un aereoporto straniero. Una sfilata di moda e di divise che seguono sempre il solito cliché. tutto fuorché pratico.

Ma ognuno sarà libero di vestirsi come vuole? Certamente. Solo che girando per il mondo – e mi potrà confortare chi lo fa – solo noi (cagliaritani, italiani) abbiamo queste ossessioni. È un gioco così semplice che dai tempi dell’Irlanda ho una percentuale d’errore del 3-4%, sono una piccola cintura nera. Se poi aprono bocca è ancora più facile, anche perché il tono di voce non è perfettamente basso, ma ti permette di conoscerne tutte le vicende.

 

Guardandomi da un altro me sono tutto fuorché uno che vi piacerebbe metter dentro un locale. Una maglietta grigia, un jeans che risente di giornate intense tra metrò e panchine, scarpe adidas, occhiali da fintointellettuale e capelli senza una logica. Così sono io nei viaggi. E mi sono sentito ridicolo in questi anni nel ricordarmi quando, da buon italiano-medio-scemo, mi mettevo tanti problemi sul vestire, mi portavo camicie, polo, felpe, tre paia di scarpe, per dover essere alla moda. Anche io sono stato così, ridicolo. Passaggi della propria vita. Ora non li sopporto, anche se li registro come fondamentali per arrivare a quel che sono.

 

Il volo prima del nostro è appena atterrato. Ci siederemo su posti ancora caldi grazie a chi c’era prima di noi, croccanti direi. E poi il solito rituale. Gratta e vinci, attenzione alle indicazioni sulla sicurezza e specialità del giorno, oltre alla ricca scelta di panini, la pasta all’arrabbiata. Ora non voglio dire, ma la pasta all’arrabbiata mai e poi mai!

 

Quando sei sospeso tra terra e cielo ti vengono in mente pensieri brillanti e infiniti. Cominci a guardare le nuvole con assoluta attenzione, ti soffermi su ogni particolare a disposizione, dalle scritte davanti “fasten seat belts while seated” fino a ciò che ti appare fuori dal finestrino, fosse anche il confine tra mare e cielo.

Come tradizione, di ritorno da ogni viaggio, la domanda è: cosa resterà? Resterà un raffreddore, una stanchezza, un portafoglio meno pieno? Oppure come credo le sensazioni, i volti, l’aria, le esperienze che hai fatto? Io punto sulla seconda mentre arriviamo lentamente in Sardegna e le prime coste si materializzano. Penso alle prossime destinazioni, mi piacerebbe Lisbona o forse Bruxelles, poi l’America, il Brasile. Chissà dove andremo e soprattutto quando. Chissà quando mi metterò davanti a un pc e, come per i miei viaggio, deciderò dove andare e farò i biglietti senza mettermi problemi di impegni, serate, opportunità.

 

Godiamoci ancora questo scorcio di viaggio senza pensare che domani più che di tapas, ramblas, tinto de verano e movida dovrò pensare a dichiarazione dei redditi, imu e ufficio del catasto, a tutte le piccole grandi rotture di palle che il viaggio sospende.

 

“La fiesta è andata” direbbero i Negrita, ma” brindo a voi e a questa vita”.

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