Dov’eravamo rimasti? Ristorantino ad Harlem. Nulla di che, ma quanto basta per curare le ferite dell’anima. Condivido la mia solitudine con una coppia triste, due reverendi in tenuta d’ordinanza e tre ragazze visibilmente lesbiche. La tovaglia è biancorossa, il cameriere è un signore distinto con camicia azzurra e cravatta fantasia.
Tiene il notes delle ordinazioni sul taschino, vuol parlare italiano ma io nulla. Col cazzo. Io parlo inglese. Male ma parlo. Niente italiano. Deleted.
Poi c’è un musicista classico, solo come me, un po’ pazzo, che apprezza la mia ordinazione (un roasted chicken) e la commenta: lE’ il mio piatto preferito!” Io accetto la sfida e rispondo che difenderò il mio pollo “until my death”. Sorridiamo. Iniziamo a chiacchierare: chiedo scusa se faccio il dj e gli racconto che NY mi ha preso il cuore. Lui mi tranquillizza: tutti e due maneggiamo musica e “tu hai la forza di far muovere la gente con la dance”. Quanta umiltà! Poi mi sottolinea: occhio che NYC ti ruba il cuore, e non te ne vai più. Prenderò con attenzione questo consiglio…ho timore che ci lascerò un pezzo di cuore. Che andrò via con rimorsi. Quando dopo ventiquattr’ore ti senti a casa significa qualcosa. Sarà per il vino che sale nelle vene, sarà l’amore per i viaggi.
Quanto è bello essere lontani. Puoi scrivere storie e nessuno si sente offeso come a casa mia. Gente piccola. Bellissimo. Morire e risorgere in una notte ad Harlem. Pochi capiranno il senso.