Lascio Roma a metà pomeriggio. Il caos della stazione Termini, il pullman per Ciampino e ancora a chiedermi quale santo difenda i miei bagagli quando salgo a bordo.
L’autobus Terravision – sei euro solo andata – ha un compito arduo: in quaranta minuti vincere il caos capitolino e portarmi nell’aeroporto povero di Roma quelle delle low cost. Sgomita e sbuffa, suona il clacson e cerca spazi come un Sebino Nela d’annata. Alla fine vince. I tempi son rispettati, quaranta giri d’orologio spaccati.
Ciampino è un bilocale. Controllo biglietto già all’ingresso e primo serpentone da superare con una tipa che sbuffa quando le chiedo se debba mostrarle anche il greenpass. Ma non lo vede questo qui che è già troppo se sto seduta all’aeroporto invece che farmi un aperitivo? Alla fine del labirinto si può scegliere tra direzione check in e diretto ai controlli. Forte del mio zaino da spalla – grazie Edoardo Piras – posso passare alle semifinali: stavolta c’è una fila davvero. Ci son due nastri a disposizione, pochi per l’afflusso di oggi. Ricordate di togliere tablet, computer, liquidi e oggetti metallici. Una ragazza ogni venti secondi riprende la litania come se leggesse il salmo a messa, ci manca sola ora pro nobis. Se consideriamo un turno di 6 ore quante volte l’ha detto?
Il tipo dietro i metal detector davanti fa il vigile con due mani che fanno palette: passa tu, poi passa tu. Col solito modo tutto italiano di trattar male la gente. Poi penso: ora stacchiamo da tutto questo. Manca poco. L’attesa è breve, nella zona A dell’imbarco per Tallin non c’è bar e il distributore non funziona. Problemi tecnici, leggo, formula valida per ogni motivo. Volevo prendermi una bottiglia d’acqua, sconto la solita fregatura di aspettare all’ultimo. Guardo triste il bric di acqua Fiuggi che mi aspetta.
Il volo dura 3 ore che passo scrivendo, leggendomi un libro di Paul Auster e ascoltando musica. Va in scena la vendjta di tuttto, biglietti, panini, snack, profumi. Vicino a me una ragazza bionda robusta controlla i miei movimenti con fulminei sguardi di condanna mentre guarda un film con un iphone di prima generazione tenendolo per due ore davanti. Non capisco bene cosa sia anche perché quando ci provo mi rifulmina.
L’atterraggio è morbido, per una volta il comandante non frusta i cavalli imbizzarriti e sballotta noi viaggiatori che abbiamo però il sedere oramai asfaltato e i gomiti ristretti. Squillo di tromba – che sa sempre di inchiappettata riuscita – e scritta gigante bianca Tallin nel piccolo aeroporto, tra pareti brandizzate da marche semisconosciute, salette curate con interni di design e parquet ovunque. La temperatura è scesa, ci sono chiazze di neve. Cammino per uscire dalla zona imbarchi incrociando spazi ordinati, bar con caffè italiano, distributori di acqua e bibite e pochi altri rumori. Ciampino è un ricordo. Niente più caos e nemmeno controlli particolari. Uscito dalla zona protetta – mi sarei aspettato almeno una perquisizione – un bimbo con giubbotto da sci e cappuccio bianco con il padre e la sorellina aspettano la mamma con un mazzo di fiori. Escono dalla porta girevole per incrociarla sul marciapiede e quando lei si gira le fano a sorpresa. Mi commuovo per quella scena da film. Un uomo con un berretto a quadri, rughe nel volto e profumo di tabacco guarda gli orari degli arrivi. Chi starà aspettando? La moglie? La figlia? Il figlio?
Davanti allo scalo passa il tram 4, quello che ti porta in centro, oltre alla linea 2 che arriva più tardi. Vicino c’è una sala d’attesa dove stazionano due uomini che penso restino là a guardare tutti i tram che passano fini al giorno dopo. Uno schermo gigante con le info sulle linee, una biglietteria automatica, parole chiare e semplici.
Il mio tram è direzione Tondi, passa tra 8 minuti. Siamo in pochi a bordo, una donna di una sessantina d’anni con una busta piena di medicine veste un giubbotto rosso e panta neri, due ragazze di Napoli, le uniche di cui si sente parola, e un’altra coppia seduta con lui di fronte a lei che si sorridono silenziosi.
Mezz’ora di buio attorno e sono in centro di una città ordinata, geometrica, il freddo che schiaffeggia la pelle, quella voglia di coccole e riscaldamento sparato al massimo e la sensazione che tutto abbia una dimensione ancora umana. In ogni angolo alberi di natale illuminati, vetrine addobbate con grazia, poche persone in giro, tutte munite di cappuccio e guanti. Finestre accese e vita domestica da scoprire.
Sono a Viru, davanti a Tammsaare Park. Le auto scorrono lente in grandi viali anch’essi illuminati. Nuovi palazzi si alternano a vecchie costruzioni tirate a lucido e altre dal sapore sovietico. Un piccolo chiosco solitario aspetta clienti che non arriveranno più. Una fermata dove incontrare fantasmi e pensare alle loro vite. Una grande croce illuminata davanti alla chiesa che rintocca le nove con una doppia tonalità.
Io amo le città nordeuropee d’inverno! Oltre alla magia mi fanno venir voglia di mangiare.
Il centro storico (illuminato per Natale) é uno scrigno dorato, richiama i tempi del Medioevo, di cui la capitale dell’Estonia mantiene quasi inalterate le tracce nelle sue strade, case e chiese. Si estende ai piedi della collina di Toompea ed é stato dichiarato Patrimonio Mondiale Unesco.Cuore pulsante della cittá vecchia é la Piazza del Municipio, dove tra le altre cose si trova una delle farmacie piú antiche d’Europa.
Ci metto pochi attimi a capire l’anima di una città. Mi è bastato camminare per sentirmi bene. Senza sapere nulla di tutto il resto, affascinato da cose semplici, una vecchia birreria, un bimbo che gioca con la neve, due donne anziane che parlano rientrando a casa, un market aperto e un chiosco che sforna panini.
Arriva una notifica al mio cellulare: APPROVATO IL SUPERGREEN PASS. Spengo qualsiasi flusso di notizie. Non voglio saperne più nulla.
Una scritta sul muro ricorda di non buttate il tempo o il tempo ti butterà. Non credo sia un caso averla incontrata.