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Una partenza per Roma

Sveglia alle 7, ansia di volo. Il taxi notifica che è in arrivo. Ma come, non è presto? Poi mi spiegherà che è normale che l’avviso parta.
Sono a casa di mamma. Le sere prima della partenza amo starle vicino e sacrificarmi in quel letto a mezza piazza della mia infanzia versione moderna di quello che fu di Padre Pio, come dice una mia amica. Te ne compro uno nuovo, lei tenta di riportarmi a domicilio con promesse roboanti. Ma’ ho 167 anni, ma ti pare che debba tornare a dormire qui?! E vabbè. Ma quindi parti, ma dove parti? A Roma. Fa freddo, vuoi le calze di lana? E attento a questo covid. Per lei qualsiasi luogo oltre Sanluri è freddo e impervio. Appena le dico Helsinki – secondo me non ha chiaro dove sia ma farà ricerche su google – mi chiede come sempre che ci fai così lontano? Domanda classica di mio padre. Eredità. Ma domani qui c’è la riunione del condominio. Mamma, andrò all prossima, fatemi sapere cosa si è deciso.
Mentre preparo il bagaglio sono alla terza sudata. Fottuta ansia. Tosse da asma. Ho preparato tutto, viaggio solo con uno zaino. Si chiama backpack, pare sia la svolta del viaggiatore ossessivo compulsivo, sempre alla ricerca di soluzioni ottimali – oddio il linguaggio da imbruttito milanese – non è quello del mio Cammino di Santiago ma mi evita il trolley e lo zaino. Una combo che non sopporto più.
Mi metto tutto sulle spalle. Scelgo accuratamente cosa portare per evitare pesi inutili. Provo e riprovo, chiude!

Il taxi è puntualissimo, un minivan da 8 posti. Chiacchiero con l’autista. Sorrido per il tanto spazio a disposizione, quale onore? Mi sento un dj superstar che va al suo concerto a Miami, mi ricordo poi che sono un povero cristo che rompe la noia locale a suon di viaggi per lavoro e per piacere e deve arrivare solo all’aeroporto di Elmas.

All’aeroporto c’è poca gente. Vuole l’aranciata e il menù? No solo acqua, cornetto e cappuccino. Sono cinque euro. Non so se dentro abbiano messo anche il sacro graal. Un tipo si avvicina al banco e chiede una tisana allo zenzero. Nulla, rispondono. E ridono discutendo dello zenzero e della sua richiesta in aumento.
Volotea, prime tensioni all’imbarco. Quelli senza priorità capitano sempre nella fila priorità e se ne accorgono dopo con scenate da mancato rigore allo stadio Olimpico. Quello che elegantissimi e professionali saltano la fila con volto spensierato con il cellulare sempre in chiamata per affari. Strano, gli imbarchi hanno due file, due soluzioni. A o B. Con o senza priorità. Anche perché se non paghi non hai priorità. Difficile sbagliare.
Ancora polemiche nell’aria. Prima non era così. Prima i treni arrivavano in orario. Prima Alitalia. Prima Dc, Pci e Psi. Effettivamente nel volo Cagliari/Roma la truppa passeggeri è più burocratica di quello milanese dove tra manager, ceo di se stessi, stilisti, influencer da shopping milanese e bocconiani sbarbati la parola d’ordine è silenzio ed efficienza.
Le frasi si sprecano nell’aria mentre Ryanair annuncia che l’ultimo imbarco per dovenonricordo. Il pubblico nonpriority potrebbe scatenarsi in un “onestahhh” da un momento all’altro perché quei priority non rispettano la democrazia.
Le polemiche continuano a bordo. Un giovane steward, appena termina una dettagliata spiegazione a passeggeri con un bambino – lodd a lui per tanta professionalità – viene impallinato da passeggeri di mezza età che sfogano rabbie mattutine e giocano sulla sua cortesia e adolescenzialità. Nessuno mi ha mai detto che devo lasciare il trolley qui, ma come mai ho pagato venti euro per i bagagli e ora ne devo mettere uno di 45 kg al check in.
Lui si prodiga per rispondere a tutti, respira e argomenta con parole legggere, ma le vedove di Alitalia siano tante.
Vorrei dirgli sei stato bravo e mettere una recensione. Dirgli che non tutti i viaggiatori sono così, che ce ne son altri che capiscono e passano avanti. Che non è colpa tua, mia, di Alitalia o Volotea. Basta che sorridi e mi tratti bene e saremo felici.

Il mio battesimo del volo con Volotea è iniziato: per ora professionalità e gentilezza, cambi volo su web – e niente telefonate di due giorni al call center e orecchie bollenti – nonostante certi passeggeri a bordo se la prendano con lavoranti a bordo, trattandoli da schiavi di qualche galeone di inizio ottocento. Prima o poi uscirà qualcuno che chiederà di lustrargli le scarpe e fargli le unghie.
Saluto un caro amico che si immerge nella lettura. La mia vicina di fila ha gli occhiali con montatura sottile, gilet e camicia con fiori viola e rossi. Si presenta con un mi scusi deciso e monotonale, ora mi sento in colpa per essere al mio posto e perché non ho capito da lontano che quel posto finestrino fosse il suo. Mi sento in colpa di esistere, signora! Altro tono del ragazzo col capello lungo che occuperà il posto al centro che chiede la cortesia per accedere alla fila.
Ci vuol pazienza, sempre. Soprattutto se si è viaggiatori e se si parte di mattina verso Roma.

Milano, strada di notte

Strada di Milano, un uomo urla e bestemmia. Sembra un personaggio di una canzone di Liga, con la 127 supersport parcheggiata all’angolo.

Gilet di pelle, basettoni, capelli lunghi che malcelano una vistosa calvizie, scarpe a punta di ferro e rayban.

Forte cadenza da confine lombardo svizzero

“Tutta colpa di quelli uomini con la divisa, porco *io, io lavoro e loro non fanno un cazzo, porteteli qui, voglio i carabinieriii!”

Sembra pronto a fare una pazzia. Vaga per la strada.

Da lontano una donna, vestita con un modesto abito da casalinga, senza trucco, si avvicina.

Lo chiama. “Roberto, Roberto!”

Lui si gira, e come per incanto smette di inveire.

Tutta la strada è al balcone, pensa al peggio. Che succederà ora?

Un momento di silenzio interminabile.

Lei ha il potere di farlo calmare. L’aspetta. Si avvicina. Lei lo abbraccia, sussurra qualcosa di indecifrabile e lui ricambia stringendola forte. Piangono. Piangono insieme. In mezzo alla strada, alla luce dei lampioni.

Dai balconi sembra quasi partire un applauso che per rispetto resta silenzioso. E forse anche questa luna padana lassù si commuove, un po’ come è successo a me, ora.

Di chi è la colpa?

Mamma si dimentica la figlia in auto. La figlia muore. Si può anche oggi essere colpevolisti?
Viviamo nella società della distrazione e dell’impegno continuo e forsennato, facile additare colpevoli. La paura di perdere qualcosa, impegni, lavoro e scadenze, ci rende vulnerabili in ogni attimo. Di chi sarebbe la colpa? Le persone sono vittime o colpevoli?
Questa tragedia e altre, frutto di distrazioni, può (purtroppo) accadere. E non ci sono tante soluzioni. Si chiama fatalità e colpisce tutti.
Dolore per la bimba e pietà per la madre e per il peso che porterà nella vita.

La chiamerò speranza

Tra le tante storie di questo weekend passato ricorderò sempre quella della madre di due miei cari amici che sta combattendo una sfida importante di vita da cui uscirà trionfatrice, ne sono certo.
Ho incontrato quella donna: il suo sorriso raccontava la speranza e la forza di chi non si arrende. Ma mi insegnava anche, un’altra volta, quanto il tempo non vada mai perduto senza fare ciò che ci faccia sentire vivi ed eterni, nonostante si scontri con le idee degli altri, con le mode e con la paura di non essere mai all’altezza.
Le storie più belle non sono i successi facili e da copertina, i matrimoni di Fedez o le autocelebrazioni, ma i piccoli combattenti di ogni giorno di cui forse si perdono tracce ma che quando si incontrano ci insegnano a vivere meglio.

City Break a Barcellona

Mia madre e le sue raccomandazioni manco stessi andando così lontano.

Un’ora di volo, ritardo, a Barcellona c’è un temporale, arriverò tardissimo. Forse all’una.

Mi piace l’idea di vedere la città mentre si addormenta e si colora di luci sfavillanti. Sperando la pioggia si sia placata e possa camminare sul lungomare visto che il mio alloggio, tatticamente, è tra Barceloneta e Ciudad Vella.

Aeroporto di Elmas quasi vuoto, rumore di ventilatori giganti. Entro e mi dirigo ai banchi. Poi i controlli.

Mi porto sempre meno ad ogni viaggio. Se pesassero il bagaglio mi rimborserebbero i soldi.

Ottimizzo. Ottimizzo anche la mente. Io, le mie gambe e il mio bagaglio. Caffè e bottiglia d’acqua. Ho la frutta e la colazione di domani. I completini da corsa, l’elettronica, gli adattatori e l’ipad con i libri.

I miei viaggi solitari, per rischiarare la mente e l’anima. Per riorganizzarmi, tra una stagione e un’altra. Per staccare anche se poi sono perfettamente connesso.
Mi piace pensare, cantava la Mannoia, viaggiare non sia mai partire e tornare.

È, in fondo, imparare ad amare. Il posto dove vai, il posto che lasci, la gente che ami e quella che incontri. Tutte le idee che ti brulicano in testa. I viaggi per me sono miniere d’oro, di stimoli, di lampadine, di cose da fare e scrivere.

Pronti all’imbarco. Si sale. Il comandante informa. Ci sarà da aspettare. Respira Tixi, comunque vada si parte.