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Nomadismo digitale all’epoca del Covid

Il “gioco” – si fa per dire – cominciò in Spagna tanti anni fa, almeno una decina. Avevo apprna finito il Cammino di Santiago. Portarsi il computer, avere una connessione e unire lavoro a viaggio. Scenari che cambiano, natura, mare, campagna.
Ricordo ancora quando un mio committente mi chiamò e gli risposi che fossi a Beirut. Per fortuna era un viaggiatore e come me capiva che le distanze non toglievano la qualità e la serietà. Anzi, il viaggio arricchiva e rendeva la mente più dinamica. E per chi lavora nel digital è una soluzione pratica.
Le derisioni non mancarono. I clienti guardarono storto, dicevano che non fosse rispettoso viaggiare e seguirli a distanza. Qualcuno continuò a dire che viaggiare e stare in giro fosse sinonimo di poca serietà e affidabilità. Quanta fatica dover far passare anche questo messaggio e sfondare l’ennesimo muro di mentalità chiusa e provinciale, capace anche di farti perdere occasioni per pura invidia.
Io sorrido e vado sempre avanti, consapevole che il futuro sia già adesso.
2021, il nomadismo digitale continua.

La vita è abitare rischiosamente il mondo

La vita è abitare rischiosamente il mondo, mettendo in crisi le sue ambizioni al controllo e al potere, facendo domande e cercando risposte, sperimentando e diventando nomadi del pensiero, ma sempre fedeli alla propria Comunità, alla ricerca delle risonanze con chi può cambiare la vita rinchiusa in una monade senza finestre.
La vita non è, come scrive Baricco, ciò che sta succedendo, con umani capaci di vivere che non lo fanno più. 
Non viaggiano, restano a casa, lavorano senza incontrarsi, non si toccano, non si occupano dei loro corpi, conservano pochissime amicizie e al massimo un amore; da tempo riservano al solo ambiente famigliare, notoriamente tossico. Pretendono anche che gli altri facciano lo stesso. (…) non escono a fare sport, feste e gite; non escono dopo il tramonto, quando è festa si chiudono in casa. Stanno dimenticando, a furia di non farli, gesti che ritenevano importanti, o quanto meno graziosi: applaudire, urlare, andare lontano, insegnare girando tra i banchi, limonare con qualcuno per la prima volta, andare dai nonni, suonare uno strumento per un pubblico, discutere con gente di cui puoi sentire l’odore, ballare, fare una valigia, andare a sposarsi accompagnati da tutti quelli che ti vogliono bene, giocare a bowling, scambiarsi il segno della pace a Messa, uscire da casa senza sapere ancora dove andare, camminare in montagna, respirare nel buio di un cinema, tenere la mano a qualcuno che muore.
Sistematicamente, e con grande determinazione, predicano la solitudine, la scelgono e la impongono, come valore supremo: lo fanno anche con coloro a cui non era destinata affatto, come i ragazzi, i malati e le persone felici.
Questa “idea di vita”, incapace di coglierne il senso profondo, che qualcuno conduce e vorrebbe pure imporla agli altri attraverso una “paura di morire” e un rispetto delle “regole sanitarie” imbevute di razionalità meccanica, va combattuta.
Il cammino dell’uomo deve essere andare alla ricerca dei valori più preziosi della vita, comprendendo che bisogna prendersi cura di sé e degli altri.

Giara di Siddi

In questo momento di incertezza non mi va di richiudermi a casa. Così, prendo la macchina e mi allontano dalla città.
Scopro che ci sia un’energia nei nostri territori e paesi che quasi ti mette in crisi. La avverti, la vivi, cerchi di farla tutta tua. Attimi di beatitudine da non farsi scappare quasi fossero l’ultimo treno della notte.

Ieri sono finito quasi per caso all’altopiano di Siddi, a ripescare tante cose: i ricordi da bambino, la serenità, la gioia di vivere, la dolcezza della vita agropastorale, quell’ultimo giorno che vidi mio padre in forma. Ricordi belli, sensazioni e nostalgie che non si sciolgono.

Il rumore delle pecore, il fruscio del vento, un pastore che mi raccontato il suo lavoro e la sua vita con quella semplicità che ti stupisce, le luci dei paesini all’avanzare della sera, dopo un tramonto infinito.
Cose semplici, in tempi dove l’odio e l’isteria hanno preso il sopravvento.

Preparando le vostre cazzo di autocertificazioni metteteci anche questo: il diritto a essere liberi e goderci la natura, a uscire per un motivo alto e nobile, noi stessi e la nostra vita. E questo lo dico a certi politicanti e ai loro vassalli, agli yesman travestiti da anime pie e tutti i servi che fanno parte della nostra società, con o senza medaglie, che hanno venduto la nostra dignità per due euro. Che hanno giocato a testa o croce col dolore di chi ha voce, di chi soffre, di chi obbedisce tacendo.

Distanti da tutto e da tutti, responsabili e consapevoli, ma liberi e vicini al proprio cuore e alla gente, quella vera.

Mondo della notte, the day after

The day after, anzi il secondo giorno dalla decisione del Governo di chiudere i locali da ballo lascia spazio a ragionamenti meno istintivi e più ponderati. Queste mie parole vogliono essere un contributo propositivo al dibattito, anche per abbassare certi toni registrati in rete.

L’amarezza è tanta, non solo per la chiusura delle disco in sé – che in realtà leggendo bene è un divieto al ballo come motivo dell’assembramento e una disposizione a fare altro come aperitivi e ristorazione con accompagnamento della musica del DJ o dei gruppi dal vivo – quanto l’attacco mirato, violento e ingrato al mondo della notte, come causa di tutti mali nostrani.

Un attacco che si perde, perdonate la ripetizione, nella notte dei tempi. La disco come luogo di perdizione e di crimine, le stragi del sabato notte, i crimini della notte, quando, numeri alla mano, si potrebbero snocciolare mille esempi diversi.

La domanda è: perchè sempre le disco? Perché il mondo della notte? In questi oltre vent’anni da dj e giornalista che ha raccontato questo mondo dalla mezzanotte in poi me la son sempre fatta. Come se le disco non fossero un piccolo specchio del paese. Come se nelle disco ci fossero altre umanità non riconducibili a questo pianeta, magari i nostri figli, parenti, vicini e conoscenti, ma “altre persone, altri mondi misteriosi”. Persone normali che le frequentano e ci lavorano: dallo studente che si paga l’università facendo il camerie al manutentore, dal padre di famiglia che esegue i lavori al service, dalla security agli staff bar insieme a tanti fornitori e collaboratori. Ma non voglio restar qui a dilungarmi su chi abbia più o meno colpe o a riaffermare che gli assembramenti sono ovunque. Basta girare per i social e uscire di casa per vedere che il problema di responsabilità ed educazione sul Covid-19 è collettivo. Ho visto assembramenti e zero controlli in tanti luoghi, adulti e giovani che non avevano cura di stare attenti e distanziati, irridere qualsiasi regola tronfi del proprio essere “a casa loro”. Questo non fa notizia. Ripeto, non sto qui a ribadire chi abbia più o meno colpe e fare il pubblico delatore, pur avendone documentazione, anzi lascio ad altri l’ingrato e infame compito. Le guerre tra categorie sociali ed economiche non mi appartengono.

Forse, scriveva bene Alessandro Lippi su Djmag, la disco è un “capro espiatorio comodo per accontentare morale e ipocrisia paesana“. Cancellerei anche il forse, perché ne ho la certezza. Ma attenti, questa assunzione non esula tanti locali dalla loro colpe. Indifendibili per tanti casi visti che hanno messo in secondo piano chi, e son tanti, hanno provato ad adeguarsi alle regole. Tanti son caduti nel tranello di riaprire senza mettersi il dubbio che una costante e continua violazione delle regole potesse essere accettata e durare a lungo, neanche memori del disprezzo accumulato nel tempo dall’opinione pubblica.

Oggi più di ieri al mondo della notte manca, però, qualcosa di più: la volontà di far parte della società, di essere credibili, di dotarsi di una vera rappresentanza che possa condividere e non subire le decisioni della politica, la credibilità e la voglia di essere categoria seria e presentabile e non un oggetto sconosciuto e misterioso, con i suoi mille vizi e ambiguità.

I professionisti son pochi, chi mette la faccia idem – unico a Cagliari è Nicola Schintu del Room – e quando accadono questi avvenimenti si nota fino in fondo quanto poi ci si riduca solo a sbraitate sui social o silenzi imbarazzati senza nessun passo in avanti utile e senza mai essere presi sul serio da nessuno. Il divertimento invece è un’industria, è un lavoro, è impresa da 4 miliardi di fatturato e centinaia di migliaia di posti di lavoro, non è propriamente un gioco. Questo dovrebbe essere punto di partenza.

Quali idee, allora? Creare una consulta regionale dell’intrattenimento che lavori costantemente con istituzioni e forze dell’ordine e che sia il punto di riferimento. Stilare delle regole e valorizzare il mondo della notte in maniera di diversa, come elemento di aggregazione e risorsa culturale e sociale del territorio, tutelando chi lavora onestamente. La disco può essere un veicolo di messaggi sociali ed educativi importante. Rafforzare l’idea che la musica sia un elemento cultura da difendere e tutelare in tutte le sue forme, e che imprenditori, lavoratori ed artisti non vengano lasciati soli.

Diceva sempre bene sempre Lippi: “la disco oggi è incompatibile con la situazione sanitaria che stiamo vivendo”. Inutile girarci attorno. Il ballo crea assembramento e qualsiasi pensiero si abbia sul virus, qualsiasi sensibilità, è un dato di fatto. Nascondersi sarebbe da falsi e ipocriti. Peggio ancora soffiare sul fuoco, incitare alla disobbedienza, strategia che diventerebbe un boomerang. Se ne son accorti molti clienti che mi hanno scritto. Mi ha stupito che fossero giovani. E noi stessi dj facciamo la differenza e veniamo acclamati in una pista e da un’organizzazione se facciamo ballare o meno la gente. Come risolvere questo dilemma? 

Oggi come oggi, gestire il pubblico è impossibile. Come dire ai clienti “non ballate e distanziatevi”, quando la disco di per sé è questo, ballo, socializzazione, incontro, abbraccio, strusciamento?

Ecco perchè bisogna fare un salto di qualità. Non possiamo con il nostro interesse particolare e momentaneo mettere a rischio neanche lontanamente il futuro, oltre che del paese, dello stesso mondo della notte, specie quando capiamo che ogni errore sarà oggetto di campagne di stampa contro, di giornali affamati di click e poca conoscenza del problema, di opinione pubblica col dente avvelenato.

Bisogna essere oggi un po’ meno attaccati al momento e più lungimiranti. La disco non è più la stessa. La gente, anche quella che ama la disco, non è (sempre) la stessa. L’opinione pubblica non è la stessa. Ogni errore si paga, anche strategico e politico, anche fatto in buona fede.

E’ stata un’occasione perduta, posso dirlo? Per dare un’immagine diversa, per far emergere il bello della categoria. E ci siamo dentro tutti, ci mancherebbe. Nessuno nega che fosse arduo se non impossibile vincere questa battaglia in un campo fangoso con le regole – impossibili e assurde – come il distanziamento arrivato fino ai due metri. Siamo seri, come era possibile rispettarle? Forse si doveva restare chiusi con indennizzo, forse sarebbe stata miglior strategia, che andare in pasto ai leoni.

La disco deve darsi una mossa e cambiare passo. Non si può più vivere a metà pensando di trovare escamotage o soluzioni miracolose. Questo “apri e chiudi” continuo sarà la colonna sonora dei prossimi mesi, sempre più incerti, di un Paese dove cultura e istruzione sono ugualmente ferme, dove la sanità è ancora nel caos e spesso fare una visita specialistica comporta tante attese. Un paese che, volenti o nolenti, ha sofferto e in cui tanti hanno paura. Neanche questo si può dimenticare. E noi dovremo adeguarci a questo strano e nuovo ritmo, una occasione di svolta.

P.s. Un pensiero particolare va a tutti i lavoratori del mondo della notte che oggi sono in difficoltà.