Budapest di notte abbraccia il nostro Boeing targato Ryanair provenienza Bergamo questo primo gennaio. Freddo, meno sette gradi, neve e l’escursione termica tra dentro e fuori che mette i brividi. Mi salva il mio Woolrich blu del 2003, vero compagno di viaggio nelle destinazioni più fredde. Tredici anni di onesto caldo, più di molto amici che giurarono fedeltà.
Recupero il bagaglio, cambio euro in fiorini, bus a200 che ci porta in città e sono alla fermata di Kobanya Kipest, capolinea di una metro dal sapore e gli interni di stampo sovietico.
Siamo in quattro in questo vecchio vagone che ha un riscaldamento efficiente, divani di finta pelle socialista e spifferi pianificati. Il silenzio viene rotto da movimenti preoccupanti di ferraglia e dagli annunci bilingua al microfono. Bisogna stare attenti alle fermate, le pronunce sono inverosimili.
Ancora venti minuti circa e arriverò al mio albergo, la prima notte, fredda ed emozionante, nella Parigi dell’est. Un ritorno gradito. Stare fermo non è la mia vita. Significa appassirsi e morire.
Preferisco queste sere. .
Eccomi. Uscito dalla metro. Le prime immagini e sensazioni di un ritorno in una città speciale.
I viali lunghissimi con la nebbia, i palazzi imponenti, quell’aria imperiale che si mischia ai rimasugli di epoca comunista, il freddo che non ti risparmia, il calore dei riscaldamenti, le fermate della metro.
Eccomi di nuovo, Budapest