Caro papà,
sono tra le nuvole di questo volo che punta verso oriente. Probabilmente siamo vicini o forse no. Tu magari sei da qualche parte, nascosto dietro una nuvola, in qualche puntino nel il cielo sopra il mondo e io qui a scriverti.
Chissà cosa avresti detto sapendo che sarei finito qui stavolta, il tuo “ma chi te lo fa fare?” che un po’ mi manca. Come mi manca quando mi aspettavi ad ogni rientro, con quel tuo atteggiamento militare, la tua espressione da “spero sia l’ultima” anche se dubito che con tutti i rientri che ho fatto saresti venuto sempre a riprendermi.
Ma alla fine avrei vinto io. Io e le mie pazzie sulla tua pazienza di sopportarmi.
E’ da quando non ci sei più che ho riiniziato a viaggiare. Lo so che l’hai notato. Non che prima non lo facessi. Ma ero disattento a tante cose. Un turista, uno dei tanti. Poi sei andato via. E io ho peggiorato la mia malattia delle partenze, iniziando a viaggiare diversamente, prendendomi davvero sul serio. La gente si è chiesta perché? Cosa nascondi? Che fai? Quanto spendi? Io delle domande stupide della gente non mi sono mai curato. Ho sempre fatto di testa mia. Anche stavolta. Iniziando a prendere uno zaino, a dormire negli aeroporti, ad avere sempre l’ansia di nuove partenze e la nostalgia di nuovi ritorni. A farmi amici sconosciuti e a non aver paura della solitudine.
Forse per colmare la distanza dell’assenza, forse per perdermi e come sempre ritrovarmi cercando me stesso o il ricordo di te. Forse per non perdere tempo perché il mondo non ci aspetta e stare fermo non mi piace.
Non c’è un motivo. Me lo chiedo anche ora mentre allungo l’orologio e aspetto l’arrivo. Ma intanto son qui e non so la causa, sento che non ci sono poi troppe distanze da te. Questo mi ripaga di tutto il resto.