Tirana, ore 18:55, forse ho scritto già troppo e non mi godo il viaggio ma il roaming inesistente mi aiuta a concentrami su pensieri e progetti. Ma ogni tanto mi sento debitore di chi mi segue con affetto

L’arrivo della sera è sancito del canto dei muezzin che inonda l’aria. Mi riportaalle atmosfere di Istanbul e poi Beirut dove ho vissuto questo rito. Vai da quelle parti e scoprirai l’effettocheffffa!

Per uno come me, che crede nella conciliazione delle religioni, curioso di conoscere la storia e di avvicinare le persone attraverso un’unica spiritualità è una carezza profonda.

Quando esco dal mio alloggio, dopo un delizioso sonno ristoratore, è già sera, luci e colori nuovi, il passo che si allenta e tutto diventa leggero.

Cammino lento, seguo il ritmo del mondo, cercando di registrare angoli, vetrine, particolari come una donna al chiosco che aspetta un cliente e una conversazione tra due autisti di taxi. Peccato non capire nulla, potessi sapere che si dicono! Sorridono, questo lo vedo, ma quale sarà il motivo? Il non sapere mi affligge più che mai.

Lascio la strada maestra e mi butto in quelle laterali dove le boutique e i negozi occidentalissimi, la banale riedizione di ogni centro città, vengono sostituiti da negoziati sgangherati, mercatini e bancarelle ricavate da garage, piene di contraffazioni di grandi marche, parrucche, magliette del Manchester e ancora cover di telefonini e reggiseni.

I palazzi mostrano nelle rughe del tempo e della povertà, tra fili elettrici e telefonici che si inerpicano come crocevie incomprensibili, parabole tv e motori dei condizionatori. I vicinati raccontano una Tirana diversa, popolana, popolare, povera e semplice, le macchine sono residui di tempi andati, i rifiuti sono parcheggiati non sempre con ordine, i palazzi non sono ancora finiti (e resteranno così, a vita).

Il senso di ogni viaggio: correggere il cammino previsto e virare oltre, senza paura di qualche sguardo minaccioso mentre scatto una foto e di qualche strano movimento che intercetto con la coda dell’occhio.

Sono i rischi del viaggiatore curioso, ma che porta rispetto per i luoghi e le persone. Non ci son dubbi che ho attirato l’attenzione di qualcuno col mio procedere curioso.

Quando riesco dal dedalo mi ritrovo in un’altra strada commerciale – Rurga Ismail Qemali – dove le vetrine tirate a lucido non mi emozionano più come quando ero piccolo e i macchinoni che sputano fuoco e fumo fanno la fiera del trash. Sento tutto questo banale, ma sono ben allenato a questo sfarzo volgare, non mi è nuovo.

Ragazzi e ragazze che vestono di marca si mischiano a uomini e donne con vestiti semplici e poveri, tute mal indossate e jeans portati male, in uno scontro generazione che racconta troppo. L’ansia dei più giovani di apparire e quella della mezza età di non aver nessun obbligo sociale da difendere, se non la macchina di grossa cilindrata come trofeo sociale. Ma tutto il mondo è paese.

Nei bar e nei locali non accettano carte di credito, il nero sommerso la fa da padrone. Così ho capito in una mezza giornata. Me ne faccio una ragione anche se devo cercare di evitare di farmi fregare dalle commissioni.

Un muezzin ricanta da un’altra moschea. I fedeli entrano composti, si tolgono le scarpe, le ripongono in un piccolo armadio di lato, salutano il custode e poi si perdono dentro ampie sale illuminate.

Una giostra illuminata gira con un bimbo a bordo e il papà che lo sistema, nell’attesa che ne salga anche qualche altro passeggero. Il bigliettaio è triste, sa che stasera non farà affari e la ragazza che dovrebbe smistare la folla ha il viso deluso e si accontenta dello smartphone. I bimbi a terra, invece, controllano in quale posto salire. Ce ne sono due. Appena la giostra si ferma, hanno le idee più chiare dei genitori che hanno appena pagato il biglietto. Uno sceglie il cavallo, l’altro, più piccolo, la carrozza magica.

Una strada lunghissima porta al Politecnico. Attorno ci son grattacieli allumati dalle geometrie curiose e altre che aspettano di illuminarsi. I semafori sono colorati anche nella struttura con dei led luminosi. L’effetto è suggestivo, come una camminata al freddo di una capitale europea avvolto da luci e da persone che mai incontrerò. Quella bellezza che si chiama viaggiare. Magari con Battiato in cuffia che canta Up Patriots to arm.

Mi guardo attorno. Tirana, Albania. La vedevo in tv, lo leggevo nei libri. Nei TG questo posto era storia: la dittatura, le migrazioni. Da piccoli era tutto troppo lontano e diverso. Oggi è emozionante essere qui. Cercare di capire. Un palazzo, un edifico, uno sguardo, una conversazione. Quel poco che basta, perchè ci vorrebbe tanto altro. E non ho pretese di capire in questo piccolo di giorni. Ogni città ha una vibrazione. Percepisci. Ti emozioni stupidamente anche sedendoti in una delle panchine e osservando il mondo che scorre, i parchi, le piattaforme, le coppie che si nascondono, gli anziani che si godono la pace di un parco.

Questa è che beatitudine, ma non dirlo in giro. Qui su Facebook, come diceva l’amico con voce squillante di Chia, non ti capiranno mai.

(le foto son volutamente poche per farvi immaginare)