L’aereo della compagnia Wizzair arriva puntuale nel piccolo aeroporto internazionale di Tirana. Controlli attenti – scambiano i miei notes per soldi contraffatti – e sorrisi di scusa e comincio l’avventura!

Terminata l’atmosfera ovattata dello scalo, riproponibile ad ogni latitudine del mondo, si apre un mondo più verace e caotico: tassisti che contrattano, la fiera degli autonoleggi e, in fondo alla mischia, gli autobus che portano alle varie destinazioni.

Scelgo quello con la scritta Tirana. L’autista ha il volto di Paul Newman, mi dice che costa 4 euro il trasporto, di salire subito con un cenno di intesa. Parla con altri tipi che poi scoprirò siano collaboratori: uno chiude le porte, l’altro accompagna l’autista. Nessun pagamento anticipato. La vettura è vecchia, un salto nel passato: ha i sedili con una stoffa appassita, un servizio bagno (che poi scopro sia un deposito per spazzoloni), un orologio che segna l’una. Ci son viaggiatori solitari, albanesi, una coppia di cinesi – lo vedo dal cellulare – un americano e altre persone.

Una donna sull’ottantina con capelli raccolti e abito nero – potrei associarla a una classica nonna di paese – è in videochiamata alla figlia che le mostra i bimbi che giocano. Sorrisi e urla. Capisco che stanno parlando anche di lavatrici e detersivi. Il marito sale dopo, sfoggia un impeccabile abito blu con una bella camicia bianca e colletti larghi, ha capelli brizzolati lunghi e un viso abbronzato sembra pronto per le nozze d’argento.

Quando l’autista accende i motori, dopo un’ora di forzata pausa, posso tirare un sospiro di sollievo. Il bigliettaio ha la polo rossa aziendale, sguardo freddo e tiene i soldi in mano: accetta moneta albanese o euro.

L’autobus dopo appena cento metri rallenta, recupera altri passeggeri appena scesi dai voli. Ma farà altre fermate curiose, quasi casuali, di cui una in aperta campagna in cui salgono due contadini che ringraziano e si siedono dietro. Poi ancirs due giovani viaggiatori.

Il tragitto aeroporto-centro dura mezz’ora, un film che mostra sviluppo e limiti di Tirana: case non ancora finite lasciano la vista a moderne fabbriche, aziende, noiosi centri commerciali da scritte inglesi e sedi distaccate di multinazionali. I nomi italiani son ricorrenti.

Tornando alle fermate, nemmeno io comprendo quale sia la ratio tant’è che la richiesta di fermata è semplicemente alzarti e far capire di voler scendere alla prossima. Lo faccio, ma la prossima è il fine corsa. “Cinque minuti”, dice l‘autista in un malandato inglese. Purtroppo diventano venticinque perché il centro è un inferno di traffico, incroci con precedenze indecifrabili, motorino e bici.

Arriviamo fino al terminal tagliando in due Tirana e non tutto quel che va storto è un problema reale: mi godo la città in un inedito tour a bordo, sono a due passi da piazza Skandebeg in cui si arriva con una breve camminata con la chiesa ortodossa e il palazzo dell’Opera.

Intorno è un fluire caotico e disordinato di auto, persone e autobus. Giardinetti incolti, panchine disseminate in maniera casuale, chioschetti, anziani che giocano a scacchi e sorseggiano un caffè turco e ragazzi che gioscono per l’uscita da scuola. E poi ancora suonatori di flauto, donne con la spesa, mendicanti, studenti universitari. Una coppia litiga, dei motorini passano impuniti nell’imponente e lucida piazza dove sventola una grande bandiera albanese.

Intorno case decadenti, palazzi sovietici si ripropongono vicino edifici nuovi e colorati dal gusto moderno, chioschetti attempati con giovani lounge bar.

Il mio alloggio costa 20 euro a notte solo contanti. Una guest al house a dieci minuti dal centro in un quartiere popolarissimo, dove si sentono le urla di una scuola media e le botteghe sono prefabbricate e i panni stesi in palazzi malridotti fanno bella mostra.

Questo mix tra moderno e vecchio, con una devastante semplicità di vita ed energia, un fluire continuo di gente e rumore, mi strappa un sorriso. Curioso alla ricerca di qualcosa di diverso, ma è questa semplicità a disorientarmi.

Questo perdere certezze occidentali e trovarmi davanti botteghe precarie e marciapiedi rotti.

L’Albania ha sofferto tanto. Dittatura efferata, persecuzioni, povertà, influenze politiche e culturali. Televisioni italiane con il loro degrado, migrazioni per cercare un eldorado.

Come non ricordare la nave straripante di albanesi che arrivò a Bari? Ferite che ogni uomo dovrebbe sentire quando parla di storia e politica.

Ma oggi quell’Albania cammina sulle proprie gambe. Tremano ma son proprie.

Forse è davvero dalla sofferenza che i popoli tirano fuori il meglio. Quel meglio che si chiama speranza, quella che altrove è andata perduta, violentata dalla banalità di una vita senza drammi.