Le ultime urla le sento da italiani e sardi in viaggio che litigano la macchina dei biglietti e poi discutono animatamente di destinazioni e alberghi. La chiacchierata finisce con un armistizio e le due coppie che scendono a Casa du Musica. Pegno da pagare, ultimi segni di italianità da disseminare per godersi un viaggio. D’ora in poi voglio sentire altre lingue e vedere altre facce.
La metro costa 2,60, il biglietto si ricarica ogni volta, e ti porta con comodità alla stazione Trinitade, a meno di un chilometro da Sao Bento, quella dei treni. Quando le porte automatiche si aprono c’è il profumo delle caldarroste che mi ricorda che, malgrado il sole, siamo già in autunno.
A Porto sono di passaggio, c’è un sole deliziato da un sottilissimo vento. Mi immergo nelle vie della Ribeira, negozi, caffè e profumi di primi arrosti, botteghe retrò di cappelli e parrucche e lingue diverse. Francesi, spagnoli, giapponesi. Un negozio di belle stampe di magliette mi affascina, mi chiedo se potrebbero essere fighe per i miei djset, una ferramenta vecchia ha una vetrina piena di utensili disposti in ordine incomprensibile e poi c’ècl‘immagine di Frida Kahlo dipinta su una porta. Un vecchio suonatore triste di tromba aspetta di attaccare con la prima note.
Il Rio Douro luccica, i vaporetti vanno avanti e indietro e i turisti aspettano il loro imbarco con ansia, riparati da bianchissimi cappellini.
Mi fermo in un commercialissimo ristorante vicino al Ponte Luis I, godendomi una birra Bock e un’insalata di pollo. Troppo pesante la francesinha e il baccalà stavolta aspetta. Il cameriere ha i rasta lunghi e sorride svelandomi la password del wifi: covid999. La linea funziona poco o nulla. Vicino, una coppia di francesi fotografa con felicità una salsiccia piccante. Arriva l’insalata, stando attenti alle bottigliette di aceto e olio, che sono dei falsi amici: azeite che vuol dire olio. Controllo ora gli orari dei treni. Tra poco mi sposto. Ma resterei pure qui, fino a tardi. Quel momento in cui il giorno lascia il posto alla sera.