Un altro giorno milanese comincia. Prendo la macchina, attraverso la città, tangenziale e poi direzione Assago dove ci sono i miei.

È  una di quelle giornate normali, una come tante, in cui qui tutto scorre secondo le logiche di una grande città.

È  sereno ma il cielo è velato, forse dallo smog o da una semplice foschia del mattino. Tutto è in ordine maniacale: i giardini, i balconi, i lavori stradali, il via-vai della gente. Nulla sembra essere mai fuori posto qui.

Provo a mettermi in carreggiata sempre come se nulla fosse, come se fosse un’altra giornata normale in cui sono qui per tutt’altra roba. Come se, come tante altre volte, stessi visitando una città per confondermi tra strade e pensieri.

Invece no, ogni tanto il pensiero ritorna al motivo di questo viaggio.

Non ho ansia di tornare in Sardegna, non vorrei forse tornare a Cagliari. Sono quei momenti in cui non sai davvero dove stare e fare, in cui vorresti avere in mano una grande pellicola e riavvolgere il nastro, decidere le parti migliori, tagliare quelle da dimenticare. Invece la pellicola scorre, va avanti inesorabile e noi non sappiamo mai quale sia il finale.

Bisogna essere forti come una roccia” mi ha detto mio padre mentre passeggiavamo stamattina con lui nel parco qui sotto. È  strano da parte sua dire questo: più che una roccia è sempre stato un fiume, un fiume che lentamente scorreva e arrivava fino alla foce. Presto o tardi arrivava dove voleva. Il lavoro, la famiglia, la casa: l’ha sempre portata avanti con tranquillità e calma olimpica, forse anche troppa per uno come me abituato a ben altri ritmi e velocità.

Ci sono stati scontri, incontri, parole forti, silenzi. Il tipico rapporto tra un figlio ribelle come me, il più piccolo dei due, e un padre tranquillo e di una generazione che ha saputo essere forte senza urlare né sgomitare, che ha ricostruito l’Italia.

Una differenza abissale che è impossibile colmare, due linguaggi e modi che ora tentano di trovare una chiave comune in questi giorni in cui ci si ritrova a recuperare affannosamente tanto tempo perso. Loro, i nati a cavallo con la guerra in quei paesini del campidano dimenticati dal mondo, con lavoro-famiglia-casa-sacrificio-risparmio, noi nati in città negli anni 70 con precarietà-forsefamigliamaancheno-casachissà-divertimento. Le certezze contro i dubbi, l’equilibrio contro la precarietà. In tutto questo si risolve il motivo per cui generazioni diverse spesso non riescono a caprirsi: una differenza di visione, di sensazioni, di interessi.

Non che una sia migliore o peggiore dell’altra, ma è come se parlassero due lingue diverse.

Provo con difficoltà a fare il motivatore, spiego che bisogna aprirsi a una nuova esistenza, fare lo scatto in avanti quando una malattia tenta di bloccare il nostro percorso. Non è facile trovare i giusti termini e le frasi: le parole non escono con fluidità, sono stiracchiate.

Quando qualcosa ti colpisce o colpisce chi è vicino a te, è difficile pensare che la strada che fino a qualche giorno fa percorrevi può essere ancora valida. Devi trovarne una nuova, più difficile, dotarti di attrezzi, preparare la macchina contro le sgommate e le probabili sbandate. Riempire il serbatoio di carburante e magari metterci anche tanica in più. E poi le mappe per trovare nuove strade.

Stai scoprendo mondi nuovi: sale d’attesa, ambulatori, ospedali, termini e medici. Ne trovi in gamba e meno. Qualcuno capisce che con la vita delle persone non si scherza e qualche altro prende tutto con una leggerezza che spero sia solo una mia sensazione del momento, altrimenti sarebbe davvero grave. Ma non c’è tempo per incazzarsi più di tanto.

Così cambia una vita. Io scherzosamente dico Tixi 2.0, Tixi 3.0 quando ci sono i momenti di ripensamento e di riorganizzazione della mia esistenza.

Mi sa che ci vorrà un Tixi vista o un Tixi snow leopard in questo caso, capace anche di essere a prova di virus e instabilità di sistema.

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