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Un giorno a Espinho, Portogallo

Dov’eravamo rimasti? Ieri mattina, Porto. E’ solo una tappa, la mia suggestione per i piccoli paesi non è un segreto.
Pranzo quasi sotto il ponte Luis I, in un
banale bar turistico. Insalata di pollo, una birra (l’immancabile superBock) e un caffè. Guardo google, un tempo la guida cartacea. C’è che mi ispira Espinho. Che ne dici, Tixi?
Cammino fino alla Stazione Sao Bento, conosco oramai le strade di Porto. E’ la classica città dove mi oriento, ma questa facilità la ritrovo oramai quasi ovunque. Come se avessi un sesto senso del viaggiatore che mi permette di sapere sempre dove trovare ciò che che cerco, anche quando mi perdo.
Il treno, destinazione Aveiro, parte ogni ora. Scelgo quello delle 15:50. E’ affollato di studenti e fa il giro passando per la Stazione di Generale Torres e Campanha.
SULL’OCEANO, ESPINHO!
Espinho mi aspetta a metà pomeriggio, cento metro dalla stazione sotterranea c’è subito il lungomare. Non pensavo fosse tutto così vicino. Ora sono di nuovo sull’Atlantico, una gioia che ritrovo sempre. Non è questione di essere solo vicino al mare ma di sentirsi al mare.
Un’immensa distesa di sabbia lambisce case basse fatte di abitazioni semplici, ristoranti e alberghetti. Poca gente in spiaggia, dove ci sono due barche di legno colorate che non capisco se siano vere o messe là come allestimenti. Non mi stupisce più nulla dei viaggi.
Mi siedo sul muretto, ascoltando l’aria profumata dell’oceano e il vento inconfondibile. Camminano tanti anziani e surfisti. Si fermano e chiacchierano su questo infinito muro che divide la spiaggia dalla strada. L’albergo è a meno di un chilometro. Anzi non è un albergo, ma una piccola guest house con 4 stanze. La mia è moderna e spaziosa, un bagno in cui si potrebbe ricavare un’altra stanza, e si chiama concha (conchiglia). Dà sull’oceano e sui tetti di Espinho con un piccolo terrazzo che solletica l’idea di festicciole con musica e cene romantiche. C’è una scritta che parla di sogni eterni e mare.
Il gestore non concede sorrisi ma spiega in inglese essenziale tutto: le persiane automatiche e occhio che devi bloccare il meccanismo, dove sono le coperte, wifi e eventuale clima nel caso avessi freddo. In bassa stagione puoi trovare ottime sistemazioni a prezzi davvero contenuti.
Riordino il bagaglio, mi godo per un po’ la terrazza che il tramonto è ancora lontano. Provo a curiosare nelle vite altrui, nei panni stesi e nelle finestre socchiuse.
Cerco il primo bar di zona, si chiama Dolce ed è gestito da due ragazzi gentili appassionati di calcio. Sono in compagnia di una coppia di viaggiatori e di due anziane donne che discutono con un libro davanti. Non capisco nulla e mi spiace non afferrare. Un’altra birra SuperBock e patatine fritte, una delle tre scelte di accompagnamento insieme alle olive e alle sardine.
Leggo e scrivo aspettando il momento d’oro, quando il sole planerà sul mare. La classica foto col tramonto diventa un ricordo di questo attimo di vita e viaggio. Un giorno la riaprirò.
Alle sette c’è buio e il freddo entra nelle membra con inattesa cattiveria. Le luci si appannano da una leggera foschia. La mia felpa Pull and bear da metà stagione è debole.
IL RISTORANTE FINTO ITALIANO
Mi vien voglia di andare a cena presto, quasi fosse una ricerca di calore umano. Tra le decine di ristoranti in zona, tutti ben recensiti ma poco affollati, mi butto su quello italiano. Ovunque tu vada c’è sempre un ristorante italiano!
Lo stomaco fa capricci e per quanto sia buona la cucina portoghese non sono un grande amante del baccalà e del mare. Mea culpa.
All’arrivo capisco che di italiano ci sono solo i prodotti civetta in giro nel locale, il nome, i tricolori tattici e i menù. Già all’ingresso quando dico che “sono da solo” in italiano e poi in inglese la cameriera non capisce. Poi faccio “uno” col dito, e sì annuisce. Mai penserei che tutti i ristoranti che si chiamano “italiani” all’estero lo siano per davvero. Almeno qui però hanno evitato la playlist di Eros Ramazzotti, Ricchi e Poveri e Mietta, ma anche la presenza di certi italiani ristoratori all’estero che si sentono il ras del quartiere con imbarazzanti abbigliamenti e storie.
Apprezzo tanto il coraggio con cui tanti provano a fare cucina italiana. Perchè mentre gli italiani sono bravi ma oramai pigri e presuntuosi, magari altrove non hanno le loro qualità ma si sforzano.
Esce dal forno a legna una pizza dignitosa, piuttosto dolce per quei pomodorini tagliati. E la pizza dolce è un 5 per me. Mi frega un antipasto, che mi riempie all’inverosimile. Maledico me stesso per quell’errore tattico della doppia portata e provo a chiudere con fatica la margherita per non sentirmi in colpa e non far apparire sgradito il loro servizio. Anche quando un altro cameriere, che pensavo fosse italiano, mi chiede se sia tutto ok lo rassicuro con un sorriso diplomatico anche se vorrei dire che è colpa mia e non ci sta nulla. Sì, lo so, son cose assurde ma son fatto così.
La cameriera è gentile, quasi al limite del servilismo. Mi mette a disagio. Ogni volta che porta un piatto resta davanti nell’attesa di un altro comando. Comprendo la situazione, la rassicuro con un sorriso e un ringraziamento sincero. Non voglio per nulla apparire il cliente stronzo e padrone. Sorridiamo quando chiedo il pane, e dico, “pan” senza sapere che in portoghese si dice “pao”. Lei mi guarda stranita finché non azzecco la parola giusta. Ma i miei dubbi su portoghese sono tanti: escludendo obrigado che pronuncio a profusione, mi manca ancora la battuta semplice, il saluto opportuno, la base. Il comunicare poco mi fa frustrazione, mi toglie la curiosità di conoscere persone e interagire.
Mi concedo un’ultima passeggiata prima di ritirarmi nella Guest house. La sera è fresca, ma c’è ancora gente in giro. Osservo i ristoranti semivuoti, gruppi di pescatori dilettanti rompere il buio dell’oceano e macchine che passano troppo lente per essere vero. Tutto sembra in un immenso e bello slow motion in cui devi stare attento a non rompere l’armonia.
Oggi. Svegliarsi in un’altra città, ovunque, lontano è sempre un’emozione nuova. Se c’è un mare e meglio ancora un oceano, è la rassicurazione che stai ancora vivendo, che qualsiasi cosa accada lui ti proteggerà.
COLAZIONE E RIPARTENZA
Faccio colazione da Zagalo, locale vicino a dove alloggio. Nel tavolo comune per gli ospiti sono disposte prelibatezze dolci e salate: torte, pasticcini, mignon. In un altro yogurt, latte, caffè, spremute. Cerco di essere razionale puntando alle proteine e alla frutta. Prosciutto sfilacciato, uova e bacon. Pane e marmellata. Un mix di ananas, kiwi e arancia. Poi mixo il caffè con il latte e ci aggiungo i corn fakes. Mi chiedo se ci siano delle logiche per cui si inizi col dolce o col salato. Vado col secondo.
Mi preparo per il check out ma prima faccio una passeggiata sulla spiaggia. Non mi son accorto che la Praia do Barrio Piscadorio è davvero lunga e per arrivare alla riva ci vuole tempo! Quando arrivo a pochi passi dall’acqua, mentre le onde del mare si fanno più forti, penso a quei viaggiatori che son partiti senza mai sapere cosa ci fosse qui davanti. Penso al coraggio e alla voglia di andare oltre il conosciuto. A come la passione del mare possa portare anche all’estremo gesto. Ci son gabbiani che si godono il primo sole e conchiglie. Il profumo è inebriante. Potrei fermarmi qui e non muovermi mai. Purtroppo devo andare.
Riprendo lo zaino e lascio l’alloggio. Non c’è nessuno e lascio la chiave nella piccola hall, vicino al computer.
Sembra che in questa cittadina il momento clou sia il ritorno delle barche dei pescatori e un mercatino spontaneo che si organizza proprio qui davanti. La gente si affolla di fronte a un bar, la Casa Pescador a Anabela. Ci son anziani e pescatori e qualche viaggiatore curioso. Chi guarda l’arrivo delle barche, chi contratta per le sardine. Chiacchiere sparse e urla degli uomini di mare mentre trasportano le loro catture per mezzo di trattori. Mi siedo al bar vicino – da Fatinha – e prendo un tavolo tattico per osservare tutto. Una donna si ferma con la busta della spesa e mostra un surgelato in scatola a due amiche. Forse si lamenta da prezzo. Un altro uomo, credo un pescatore, ha una maglia biancoverde del Porto ed entra ululando qualcosa. Chiacchierano tutti ad alta voce. Il mare ricomincia a ringhiare ma da qui vedo solo gli spruzzi. Le barche di legno colorate posano sulla spiaggia, in attesa di un altro giorno. I pescatori riordinano le reti e le lasciano al sole. Potranno riabbracciare le mogli e i figli riposarsi e godersi il tempo. La giornata per loro è appena finita. La mia, chissà. Non ho programmi. Mi basta l’oceano.