Tempo fa scrissi una piccola storia per un posto che visitai. Tra le tantissime, ricordo due reazioni: un messaggio privato di una ragazza — “Grazie, mi hai fatto venir voglia di andarci” — e, sotto al post, il commento di un tizio: “Vabbè, te la canti e te la suoni”.
C’è un confine sottile tra raccontarsi e autocelebrarsi, e ci camminiamo sopra tutti i giorni.
Il nostro lavoro, però, oltre a scrivere storie – che dici Gianluca Medas? – e far musica, è anche far sapere cosa facciamo e per creare movimento: non per metterci al centro, ma per creare occasioni che altrimenti non esistono, soprattutto se non fai parte di nessun “sistema”. Se non lo racconti, è come suonare a porte chiuse.
Per me “raccontare” significa osservare e restituire. Altre volte spiegare il processo più che il risultato, premiare chi lavora con me, dire cosa ha funzionato e cosa no, condividere sensazioni e ciò che può essere utile a chi legge. Non è una vetrina di medaglie: è una mappa per chi cerca proprio quel tipo di lavoro o quella sensibilità. Per chi vuol fidarsi dei miei occhi.
Sì, qualcuno leggerà vanità dove c’è trasparenza: fa parte del gioco. Possiamo scegliere il tono, non lo sguardo degli altri.
L’alternativa è il silenzio. E il silenzio, per chi vive di collaborazioni e relazioni, per chi scrive e non ha cassa di risonanza, chiude porte.
Preferisco correre il rischio di sembrare “troppo” a qualcuno, piuttosto che non farmi trovare da chi, magari, sta cercando proprio questo.
Continuo quindi a raccontare: non “quanto sono bravo”, ma dove sto mettendo il lavoro, perché, e con chi. Chi ha piacere mi legge; chi no passa oltre. Intanto, le storie giuste trovano la loro strada.
E voi? In un’epoca in cui celebriamo tutto – da noi stessi ai figli come trofeo, dal corso di piripicchio pagato 9 euro 99 alla pizza più buona del mondo – tracciate il confine tra condividere il proprio percorso e sembrare autocelebrativi? Vi è mai capitato di trattenervi per paura del giudizio?