Ogni volta che qualcuno chiede una canzone al DJ. Ecco, nella mia testa si accende un piccolo dibattito interiore. Da un lato, c’è la parte di me che sorride e fa buon viso a cattivo gioco, dall’altro c’è l’istinto di giudicare quell’azione come un atto di sgarbo.
Non perché io sia un purista della musica, ma perché dietro ogni DJ set c’è un pensiero, un’atmosfera che sto cercando di creare, un equilibrio tra idea e narrazione sonora.
Eppure, nel tempo, abbiamo reso tutto questo così banale da far credere che il DJ sia poco più di un jukebox umano, una bancarella pronta a esaudire qualsiasi desiderio musicale. In parte, la colpa è nostra: abbiamo trasformato il mestiere in un fenomeno da baraccone, una playlist, abbiamo accettato di abbassare l’asticella pur di fare tutto e accontentare chiunque, lasciando intendere che alla fine “è solo mettere canzoni”.
Un DJ – mio pensiero – è molto più di un esecutore di tracce. Immagina, sceglie, costruisce. Una serata non è solo una sequenza di brani, ma un viaggio fatto di intuizioni e connessioni.
Ecco perché ogni volta che qualcuno mi chiede una pezzo, non posso fare a meno di pensare che sta interrompendo quel flusso. Non sempre in modo ostile, ma con la leggerezza – ahimè anche l’ignoranza – di chi non si chiede mai davvero cosa significhi stare dall’altra parte della consolle.
Il mestiere del DJ esiste, ma è sottovalutato. Non tanto perché manchi il riconoscimento, ma perché il ruolo stesso è stato svuotato di significato. Bisognerebbe tornare a raccontarlo per ciò che è: un’arte, fatta di scelte, sensibilità e tempo. Facciamo ballare, facciamo divertire, creiamo un flusso. Quando qualcuno chiede una canzone al DJ ci fa male. Un’arte che merita rispetto, anche quando il brano che aspettavi non arriva e quando il genere non è il tuo. E quando quest’arte non viene rispettata, meglio starsene a casa.