No, la Disco non è morta. E nemmeno la voglia di ballare.
C’è una cosa curiosa che noto nelle mie serate da DJ: si divertono soprattutto le persone sopra i trent’anni, e ancora di più quelli sopra i quaranta e cinquanta. Li vedo in pista, mi guardano e mi rassicurano: nulla è perduto.
C’è una richiesta forte di musica Disco, funky, house, dance. Gente che vuole ritrovi curati, che sa stare in un locale senza esagerare, senza rovinare la serata agli altri. (E credetemi, non è scontato.)
Ecco perché non si possono creare serate miste per ambiente. Ecco perché i miscugli musicali e la poca cura alla lunga perde.
Non so se sia un fuoco di paglia che avverto da qualche stagione o un’ondata di ritorno fatta dalle generazioni che hanno vissuto la discoteca quando la musica e la socialità erano centrali.
Quelli che hanno ballato sotto il mirrorball su I Will Survive di Gloria Gaynor, che hanno cantato Don’t Stop ’Til You Get Enough di MJ, che hanno sentito sulla pelle il groove di Le Freak degli Chic ma anche più recentemente che si sono emozionati con Planet Funk e Daft Punk e ancora hanno vissuto le ultime scintille di Guetta e Eric Prydz, Sinclair e Solveig. Gente che sa cosa vuol dire entrare in un club e sentire un DJ che suona Kid Cudi o i Meduza e vedere la pista esplodere.
Hanno voglia di serate, di appuntamenti, di rivedersi senza fare troppo tardi. Molti hanno chiuso relazioni, sono soli, vogliono nuove compagnie, vogliono leggerezza. E la disco e le feste restano ancora un luogo di socializzazione pura, come diceva Frankie Knuckles:
“A house music party is not just about dancing. It’s about community.”
Poi certo, ci sono quelli – quanti! – che silenzierebbero qualsiasi forma di ballo e divertimento, che non vorrebbero mai più sentire musica. Quelli che il ballo è reato e i dj dei pericolosi sobillatori. Quelli che ridono dei single che si divertono, degli over e delle over che ballano senza filtri, ma la musica è questo. È un atto di libertà assoluta, un’esplosione del corpo. Un rito collettivo.
E io sono ancora qui, dopo tanti anni, a leggere il pubblico, a studiare tracce, a ripescare vecchi pezzi e cercarne nuovi a creare connessioni con le persone. Con l’umiltà di chi ha visto cambiare le notti e le mode, ma sa che certe emozioni non passano mai.
Perché in fondo, come dicevano i Daft Punk:
“One more time, we’re gonna celebrate.”.