Sono seduto al bar e lavoro al computer. La musica accompagna i rumori di tazzine e sedie. C’è una selezione anni ’90: “I got the power!”, la voce di Samanta Tina invade la stanza. Poi il ritmo si allunga con West End Girls dei Pet Shop Boys.
Un uomo di mezza età, robusto, con una maglietta con la scritta USA, la barba curata e i capelli pettinati con una riga definita, si avvicina a me quasi in modo minaccioso. Distolgo lo sguardo dallo schermo: ci guardiamo negli occhi. Penso sia uno dei tanti conoscenti che mi salutano mentre lavoro, magari qualcuno che non vedo da tempo. In pochi secondi provo a riconoscere il volto, ma non mi ricorda nessuno.
«Mi offri per favore una pasta e un cappuccino». Una frase in cui il punto di domanda sembra rimasto in tasca.
Perplesso e a disagio, sento invaso il mio spazio e non so cosa rispondergli. La barista, notando la scena, lo rimprovera: «Non deve chiedere!».
Passano alcuni secondi, poi mi giro verso di lui: «Nessun problema, pago io». Tiro fuori un sorriso rassicurante per sciogliere quel momento di tensione.
L’uomo si sposta al banco, addenta la brioche e sorseggia il cappuccino. Chiudo il pc e lo osservo. In un attimo penso alla sua vita, più che soffermarmi sul rimprovero della barista. Vedo sempre più spesso persone alla deriva in città. Conosco molte storie simili anche grazie al mio lavoro con Agape: esistenze disorientate, senza famiglia, senza lavoro, senza affetti. Travolte da uno tsunami chiamato vita.
Finita la colazione, l’uomo mi saluta e torna da me con un sorriso incerto ma pieno di gentilezza. Mi fissa di nuovo: «La prossima volta te lo offro io». Vuole rassicurarmi, sentirsi in pari. A me importa poco. Gli restituisco il sorriso. Lo rassicuro. Non aspetto nulla in cambio. La generosità non ha bisogno di essere ripagata: si fa perché si sente, perché ci si crede. E bisogna allenarla ogni giorno, perché non si sa mai… un giorno, magari senza accorgercene, potremmo ritrovarci dall’altra parte della strada.