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Sarajevo, tra freddo, silenzio e ferite di guerra

“Sarajevo, perché?” È la domanda che molti mi hanno fatto quando ho deciso di visitarla. Complice il mio compleanno e i suggerimenti del mio caro amico Giuseppe Marcialis, sempre pronto a propormi destinazioni che risuonano con le mie tensioni ideali ed emotive, ho deciso di partire.

Non avevo mai pensato a Sarajevo come a una città turistica. Mi attirava la sua complessità, il fascino enigmatico del mondo balcanico, la possibilità di immergermi in una realtà fatta di storie e non di cartoline.

Al mio arrivo, il primo impatto è stato quello di una città fredda, lenta, ancora segnata dalla guerra. Le cicatrici sono ovunque: nei muri crivellati dai proiettili, nei ruderi lasciati a metà, negli occhi delle persone. Eppure, ho sentito subito un’accoglienza sincera, una gentilezza quasi disarmante, unita a una curiosità autentica verso chi arriva da fuori.

Perdersi nel freddo e nel silenzio

Mi sono concesso il lusso di perdermi. Il freddo era pungente, tagliente, ma mi ha spinto a rallentare. Ho ascoltato il silenzio, rotto solo dal richiamo del muezzin che elevava la sua preghiera. Quel suono mi scuoteva, mi riportava alla realtà, ricordandomi quanto fosse diverso e al tempo stesso simile il mondo che stavo esplorando.

Sarajevo porta ancora le ferite del lungo assedio dal 1992 al 1996. Quattro anni di isolamento, durante i quali la città è stata sotto il tiro costante dei cecchini appostati sulle colline. Ho camminato lungo quello che un tempo era il Viale dei Cecchini, oggi trafficato e pieno di vita. Pensare che, per anni, attraversare una strada significasse rischiare la vita è stato straniante.

Le immagini che avevo visto online mi tornavano in mente: persone che correvano, cercando di prevedere il prossimo sparo. I palazzi, ancora crivellati dai proiettili, sembrano custodire la memoria di quei giorni, come a voler dire: “Non dimentichiamo.”

Il Cuore Storico: Baščaršija

Il mio giro è iniziato da Baščaršija, il cuore storico della città. Le strade strette, le botteghe artigianali, le moschee che si alzano discrete: tutto sembra parlare di una Sarajevo che non ti aspetti. Mi sono fermato accanto alla fontana Sebilj, circondata dai piccioni. Ho comprato un succo di melagrana da un venditore ambulante e, sorseggiandolo, ho osservato la vita intorno a me: anziani che chiacchierano sulle panchine, bambini che rincorrono i piccioni, uomini che si recavano nella moschea.


Ho passato tempo a osservare le donne della città. Anziane avvolte in sciarpe pesanti, donne col velo con un’aria di dignità che mi ha colpito; giovani con uno sguardo sereno, spesso dietro ai banconi dei caffè o delle botteghe, con sorrisi che trasmettevano forza e resilienza.

Il Tunnel della Speranza

Fuori città, ho visitato il Tunnel della Speranza (Tunel spasa), un passaggio scavato a mano per collegare Sarajevo assediata al mondo esterno. L’ingresso, in Džemala Bijedića 19, ospita un piccolo museo che racconta la storia del tunnel con video e oggetti originali. Camminare in quel breve tratto ancora accessibile è stato come sentire il peso di chi, in quel buio, ha trovato la forza di resistere.

Il Gusto di Sarajevo

Mangiare a Sarajevo è immergersi nella sua cultura. Ho assaggiato il ćevapi, servito con pane caldo, cipolle crude e una cucchiaiata di kajmak: un piatto semplice, ma incredibilmente soddisfacente. Nei pekara(forni), ho trovato il burek, una spirale di pasta sfoglia ripiena di carne, che ho mangiato passeggiando mentre il freddo mi pizzicava le mani. Era confortante, perfetto per una sera d’inverno.

In un caffè accogliente ho provato il caffè bosniaco, servito nella tradizionale džezva. Si versa lentamente nella tazza, evitando la posa. Accompagnato da un baklava dolcissimo, è il modo ideale per scaldarti e prenderti una pausa.

 

Le Rose di Sarajevo

Anche il suolo parla. Passeggiando per le strade, ci sono piccoli crateri lasciati dalle bombe, riempiti con resina rossa. Si chiamano Rose di Sarajevo. Sono segni indelebili, memoriali spontanei che ricordano le vite perse. Camminare sopra di esse è un’esperienza che ti costringe a rallentare, a riflettere.

I ponti sul fiume Miljacka

Sarajevo è una città attraversata da ponti, ciascuno con una storia. Il Latinski Most (Ponte Latino) è il più noto, famoso per essere stato il luogo in cui l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e sua moglie Sofia furono assassinati nel 1914, segnando l’inizio della Prima Guerra Mondiale. È un ponte semplice, di pietra, ma ricco di significato.

C’è poi il Ponte Vrbanja, teatro di scontri e tragedie durante la guerra. Qui furono uccisi Admira e Boško, i “Romeo e Giulietta di Sarajevo”, simbolo di un amore che resisteva anche alla follia del conflitto. Attraversare questi ponti, con il fiume Miljacka che scorre lento sotto di essi, è come passare da un tempo all’altro. Lungo le sue rive, le case e i palazzi raccontano storie di decadenza e rinascita.

La stazione dei treni

Uno dei luoghi più surreali che ho visitato è stata la stazione dei treni. Mi ci sono ritrovato per caso, in attesa di un autobus per Mostar. Sembrava un pezzo degli anni ’80 lasciato intatto, un luogo sospeso. All’interno, bar vecchi di più stagioni, un grande muro con uno slogan datato di Coca-Cola, una biglietteria chiusa e qualche sparuto viaggiatore che sembrava più perso che in attesa. Non c’erano treni in arrivo né in partenza. L’atmosfera era quella di un non-luogo, un luogo dimenticato dal tempo.

La notte

Di notte, Sarajevo si acquieta. Il freddo pungente avvolge la città come una coperta ruvida. Non c’è caos, non c’è fretta. C’è solo il respiro della città, che ti invita a fermarti, a immaginare le vite che l’hanno attraversata.

Non è stato un viaggio semplice, né leggero, ma Sarajevo mi ha insegnato che nelle cicatrici si trova spesso la vera bellezza e che il mondo Balcanico, per quanto vicino geograficamente, è un universo tutto da scoprire e da capire.